Il titolo della relazione offre una chiave
di lettura che viene dalle Scritture. La Bibbia è una biblioteca, che apre per
le sue lettrici una pluralità di prospettive, numerose vie d'accesso. “C'è un
libro per ogni cosa”, potremmo dire, parafrasando il Qohelet! E tuttavia, tutte
le narrazioni bibliche, per quanto molto differenti tra loro, sorgono da una
medesima grammatica, i cui contenuti essenziali possiamo ritrovare proprio in
questo titolo. Mi limiterò, dunque, a dare peso a queste parole, a evidenziarne
la posta in gioco, così come viene messa a fuoco nelle Scritture.
1. Innanzitutto, “vivere”. È proprio
il verbo giusto, dal punto di vista biblico. Dal nostro punto di vista,
probabilmente, gli avremmo preferito il verbo “fare” o la sua variante più
poetica: “creare”. Per noi la comunione e la missione appartengono all'ordine
delle azioni. Soprattutto oggi, quando le chiese tutte, gli ordini religiosi,
le varie associazioni ecclesiali sentono il fiato corto di presenze ridotte ai
minimi termini, ecco che diviene evidente l'urgenza di rimpolpare le fila, pena
l'esaurimento dell'esperienza. Certo, non siamo poi così spudorate da
affrontare questa sfida in termini di numeri, con una mentalità da marketing; ricorriamo a parole più religiose,
come comunione e missione. Ma al fondo della questione, magari in modo non del
tutto consapevole, pensiamo che si tratti di agire, di predisporre nuove
strategie, aggiornando il vocabolario e rendendo più appetibile la proposta.
Intendiamoci
bene: non è che la domanda sul “fare” sia sbagliata. Ma non funziona come punto
di partenza. La Bibbia ci suggerisce di essere più radicali, ovvero di andare
alla radice. Di risalire a monte di quella valle in cui si muovono le nostre
legittime preoccupazioni. E alla radice di tutto ci sta il “vivere”,
accompagnato dalla domanda antropologica: “cosa significa vivere?”. La Bibbia,
più che un discorso umano su Dio – un libro di teologia – presenta il discorso
divino sull'umanità – un libro di antropologia. Forse, le chiese, hanno letto
le Scritture con l'intenzione di estrarre la retta dottrina, il “Credo”
costitutivo dell'esperienza ebraico-cristiana e hanno lasciato in ombra il
fatto che la fede è il lievito per la pasta della vita. O, per dirla con la
conclusione del Vangelo secondo Giovanni: che la Parola testimoniata nelle
Scritture intende sì suscitare la fede; ma quest'ultima è in funzione del
vivere. Il Quarto evangelista dichiara che i segni da lui attestati “sono stati scritti, affinché crediate che Gesù è il Cristo,
il Figlio di Dio, e, affinché, credendo, abbiate vita nel suo nome” (Gv
20,31). Dunque, si ascolta la Parola per credere; ma si crede per vivere. Gesù
è venuto affinché tutte e tutti “abbiano la vita e
l'abbiano in abbondanza” (Gv 10,10). Alla scuola dell'evangelista Giovanni,
possiamo apprendere la passione per la vita. E riscoprire la prospettiva del
“vivere” significa liberare la fede dalle secche moralistiche e dottrinarie per
mettere in evidenza il suo carattere esistenziale. Dalla Genesi all'Apocalisse,
la Bibbia vuole essere un canto della vita. Un canto intelligente, realistico,
ben consapevole che la vita può essere tradita. È quanto viene espresso col
termine “peccato”. Per le nostre orecchie, questa parola suona moralistica,
come trasgressione della Legge. Ma trasgredire una norma si dice “reato”, non
“peccato”! Il termine ebraico, alla lettera, significa “fallire il bersaglio”.
Si tratta, dunque, di una prospettiva esistenziale: tu desideri essere felice
ma operi delle scelte che ti allontanano dalla meta, ti portano a fallire il
bersaglio. Il senso del termine ebraico che traduciamo con “peccato” lo
possiamo cogliere nell'uso esclamativo che ne facciamo: “peccato che non hai
raggiunto quanto desideravi! Peccato che non sei felice!”.
Alla radice di tutto c'è il vivere. Ma noi,
esseri umani, non nasciamo con le istruzioni per l'uso, non sappiamo in partenza
cosa significhi vivere. Respiriamo, ci muoviamo, cresciamo: ma il senso del
nostro vivere non emerge in automatico. Di qui la domanda: “cosa significa
vivere?”. Domanda sapienziale per eccellenza, che va continuamente posta,
perché mai esaurita. Domanda da riproporre, oggi, in cui abbiamo a disposizione
tutte le risposte: ce le fornisce il signor Google! Oggi, il problema non sono
le risposte ma le domande. Quali domande ci facciamo? Semplici quiz, che
prevedono una risposta esatta (prospettiva del cosiddetto “problem solving”)? O
siamo capaci di domande che durano un'intera esistenza, domande sapienziali sul
“come vivere” più che sul “cosa fare”? Che bello se una chiesa, un ordine
religioso fosse in grado di testimoniare questa radice dell'esperienza credente.
Così che chi ci guarda dall'esterno non pensi immediatamente a dei venditori di
un prodotto religioso, che cercano di convincere le persone ad entrare nel loro
negozio. Se ci riducessimo a questo, avremmo già in partenza tradito l'evangelo
della grazia, ovvero dell'amore gratuito di Dio! Com'è differente stare nella
compagnia degli esseri umani come persone che si chiedono “cosa significhi
vivere” e che testimonino che la fede ha qualcosa da dire proprio a questo
riguardo, che non è una “cosa di chiesa” ma ha a che veder con l'arte di
vivere. Di vivere bene, non come schiavi, ma in una terra libera; non come
succubi della mentalità del faraone ma provando a battere la strada alternativa
suggerita dalle “dieci parole” di libertà. Il Dio d'Israele e di Gesù, che
raccoglie il nostro grido e desidera liberarci dalle catene, continua a dirci:
“scegli la vita” (Dt 30). Perché non è vero che la vita procede in automatico –
basta che respiri e che il cuore continui a battere. Lo vediamo bene oggi, in
una società tendenzialmente depressiva, in mezzo ad un'umanità spaventata,
stanca, arrabbiata. Noi per prime e poi nella veste delle testimoni dobbiamo
tenere viva la domanda sul “vivere”.
2. Per la Bibbia, la vita ha un centro,
ovvero il “cuore”. Sgombriamo il campo dai fraintendimenti: per le
Scritture “cuore” non ha quell'accezione romantica che ha per noi. Il cuore non
è la sede dei sentimenti. O meglio, non è solo questo. Nel mondo delle
Scritture, il cuore è la cabina di regia di ogni espressione umana. Col cuore,
certo, si sente, ma anche si pensa, si decide, si agisce. Se noi diciamo alle
nostre ragazze: “usa la testa”, la Bibbia direbbe: “usa il cuore”. La qualità
della vita la si gioca nel cuore. Un cuore che può essere “ingannevole più di ogni altra cosa, e insanabilmente
maligno” (Ger 17,9; cfr. Gen 6,5; 8,21); un cuore che può ripiegarsi su
di sé (così Lutero definiva la condizione di peccato: “cor incurvatum”) e
divenire indurito (Es 7,13), di pietra (Ez 11,19; 36,26). Ma che può anche
essere un cuore di carne, capace di amare Dio con tutto se stesso (Dt 6). O con
le parole del nostro titolo: il cuore può essere misericordioso ed accogliente
ma anche spietato ed egoista. Le parole dello Shemà Israel, che
costituiscono la preghiera quotidiana delle sorelle e dei fratelli ebrei, si
presenta come un'intensa riflessione sul cuore. È dal cuore che sorge la
passione dell'amore e la scelta di dare forma alla fede seguendo i comandi del
Signore. Alla lettera, viene detto che la parola che Dio ha rivolto al suo
popolo sta “sul tuo cuore”. Non “dentro”, come un dato già acquisito e fatto
proprio. Piuttosto, come una realtà che sta sull'orlo del cuore; dipende da noi
farla cadere dentro o lasciarla scivolare fuori. Perché sia la Parola ad
educare il cuore e dare forma all'esistenza, occorre domandare – come fa
Salomone – un “cuore che sa ascoltare” (1 Re 3,9). E' il cuore, più che
l'orecchio, l'organo dell'ascolto. L'arte della meditazione prova a prendere
sul serio questa indicazione che non esaurisce il percorso della Parola nel
suono che colpisce il timpano dell'orecchio e nel significato colto dal
cervello. Affinché la Parola dia forma all'esistenza è necessario che si
radichi nel cuore, orientando l'intelligenza, certo, ma anche il sentire, il
gustare, il discernere, il decidere, l'agire.
Nel
Nuovo Testamento, forse è soprattutto l'evangelista Matteo ad indicarci
un'interessante prospettiva nel custodire il cuore. Matteo, infatti, presenta
Gesù certo come il Signore – “l'Emmanuele, il Dio con noi” - e come il Salvatore;
ma per lui, Gesù è soprattutto il Maestro. Il Vangelo secondo Matteo è
costruito attorno a cinque grandi discorsi che Gesù rivolge ai suoi discepoli
affinché divengano scribi sapienti, in grado di estrarre dal loro tesoro cose
nuove e cose vecchie (Mt 13,52). Tutti questi discorsi, a partire dal primo,
quello pronunciato sul monte (Mt 5-7), mirano ad illustrare la sapienza del
Regno e a farla radicare nel cuore. Così che il cuore divenga misericordioso e
accogliente persino nei confronti dei nemici. Dietro certe indicazioni che a
noi suonano paradossali – porgere l'altra guancia, dare anche la tunica... - vi
è in gioco una differente sapienza delle relazioni, sottratte al limite delle
re-azioni simmetriche (se l'altro mi picchia, anch'io faccio altrettanto) e
capaci di spiazzare l'interlocutore, di promuovere gesti creativi. In un
momento storico in cui prevalgono le reazioni impulsive, di pancia, con tutto
il loro carico di rancore, di vendetta e di odio, oltre a deplorare questa
pericolosa deriva societaria, occorre lavorare a monte per formare cuori che
sono in grado di promuovere un differente vedere, sentire, valutare, agire.
La misericordia e l'accoglienza non sono
sentimenti spontanei. Tutt'altro! È necessario che il cuore faccia esperienza
della grazia, che perdona e accoglie. Che il cuore senta le parole di Gesù: “misericordia
voglio, non sacrificio”; e “l'avete fatto a me”.
Le chiese, così attente alla formazione
catechistica e all'educazione sacramentaria, spesso dimenticano che alla base di
ogni proposta di fede vi è l'educazione del cuore. Oggi, in un momento in cui
abbiamo smarrito il senso dell'essere umani, c'è un lavoro pedagogico di tipo
sapienziale, un'educazione dei cuori, che domanda di divenire prioritario.
3. Solo a questo punto possiamo affrontare i
due sostantivi del titolo. Innanzitutto, la comunione. Per niente
scontata nel nostro contesto storico, la comunione è il frutto maturo della
sapienza relazionale. Il discorso della comunione si avvale della grammatica
dei legami, di uno sguardo sulla vita che vada oltre l'idolo del nostro “io”
recuperando la verità del “noi”. Di nuovo, è in gioco il “vivere”, la domanda
su cosa significhi vivere. Si tratta di cogliere tutta la portata di quella
parola originaria, detta da Dio: “non è bene che l'essere umano sia solo” (Gen
2,18). In una creazione “buona”, la prima cosa “non buona” è il pensarsi senza
l'altro, come se ci facessimo da soli e non fossimo “figlie” e “figli”. Può
essere utile leggere l'opera in due volumi di Luca – il suo Vangelo e il
libro degli Atti degli apostoli – come una riflessione sul vivere la comunione.
La comunione offerta da Dio ad un'umanità che la fugge e si ritrova perduta –
come i due figli della parabole (Lc 15); una comunione vissuta nella comunità
ecclesiale, come nei sommari di Atti (2, 42ss; 4, 32ss), dove vengono
esplicitati gli ingredienti di base della comunione. Alla scuola di Luca
impariamo che la comunione non è mai dato di partenza, ma sorpresa delle
“seconde volte”. In principio, c'è il rifiuto, come quello patito da Gesù a
Nazareth (Lc 4) o dalla prima chiesa di Gerusalemme (At 5: Anania e Saffira).
Solo la misericordia e l'accoglienza reciproca possono riaprire i sentieri
interrotti della comunione. Impariamo che la logica della comunione non ha niente
a che spartire con il calore settario, avendo un respiro universale, che giunge
fino ai confini (non solo fisici, ma anche esistenziali) della terra (At 1,8:
programma dato dal Risorto). E che l'universalità delle relazioni si misura col
criterio del povero, con la sfida di essere una realtà portatrice di una buona
notizia per i più poveri (Lc 4,18). Ma questo respiro ampio della comunione
prende forma “a partire da sè”: solo una chiesa comunionale può annunciare
l'evangelo della fraternità. La comunione, prima di essere un tema, è uno
stile, un modo di vivere la fede camminando insieme (sinodo!), superando le
barriere che dividono le donne e gli uomini, gli ebrei e i pagani, gli schiavi
e i liberi. Una chiesa dal volto fraterno, portatrice della sapienza dei
legami, capace di collaborare con tutte e tutti, che antepone il bene comune
alla propria affermazione. Scommettere sulla comunione significa convertirsi da
un modo d'essere autoreferenziale, anche quando si è tentati di giustificarlo
in nome della fedeltà a Cristo. Significa pensarsi come piccoli laboratori di
relazioni significative, creative, dove nulla è scontato e tutto va ripensato.
4. Infine, la missione. Che non è l'appendice alla comunione, una
sua dilatazione che coinvolge altre persone. L'urgenza della missione non può
essere dettata da esigenze di sopravvivenza o di espansione. Missione non è
proselitismo o marketing al fine di rimpolpare le fila sempre più esigue. È un
sentirsi “mandate”, senza sapere bene dove andare, come muoversi, cosa fare.
Almeno, per l'evangelista Marco – come per Abramo - si tratta di questo.
Non della marcia trionfale di chi intende conquistare il mondo, forte della
verità ricevuta e della fede salda con cui la si è accolta. Con linguaggio
paradossale, Marco racconta di discepoli e discepole che non capiscono,
fraintendono, sperimentano la loro inadeguatezza; e in questa postura, che
sembrerebbe congelare ogni desiderio missionario, provano, ogni volta daccapo,
a ricominciare a stare con Gesù e ad andare ad annunciare la parola e la forza
del Regno (Mc 3,13-15). Normalmente, non si attingono da Marco le indicazioni
per la missione. Personalmente, ritengo che oggi questo racconto evangelico sia
illuminante per muoverci in un contesto ingarbugliato, in cui ci sentiamo
spiazzate e inadeguate. Oggi, la missione deve saper coniugare i linguaggi
opposti della passione e della fragilità. Oggi, la fede può essere testimoniata
da chi condivide l'incertezza e sperimenta sulla propria pelle il fallimento.
Come le discepole descritte da Marco, che di fronte all'annuncio della
resurrezione “fuggono, senza dire niente a nessuno, perché avevano paura” (Mc
16,8). Questo scandaloso finale di racconto sembra mettere sotto scacco il
senso stesso dell'evangelo. Dove sta la buona notizia per un'umanità in fuga da
se stessa, spaventata e senza parole? Per Marco, l'evangelo si nasconde nel
versetto precedente (16,7), dove risuona la parola del messaggero celeste: “vi
precede in Galilea; là lo vedrete”. I credenti non sono migliori degli altri;
non hanno una marcia in più. Fragili e fallibili, possono contare unicamente
nella speranza che il Risorto continua a precederli e li rimanda in Galilea,
laddove tutto aveva preso inizio. Un po' come il gioco dell'oca, si tratta di
tornare alla partenza, di ricominciare dall'inizio. Per Marco solo i ripetenti
possono essere missionari credibili. Che condividono realmente (non per finta,
per strategia) la fragilità della condizione umana, sorretti dalla speranza che
ci è sempre data una “seconda volta”. Quando si fa i conti con la propria
inadeguatezza, si smette di essere giudicanti e si coltivano relazioni
empatiche con tutti, anche con i falliti della vita, con i dannati della terra.
Imparare alla scuola di Marco l'arte della missione significa umanizzare la
fede, riscoprire la comune condizione umana, scommettere sulla possibilità di
ricominciare. Significa essere missionari di umanità, per poter essere
testimoni credibili di quel Dio che ci manda ad annunciare che il suo Regno,
nonostante tutto, è vicino.
Alla scuola dei quattro Vangeli, siamo
chiamate a ripensare le grandi parole della fede, perché possano essere
significative per noi e per le donne e gli uomini del nostro tempo.
Forse, in mezzo alle molte fatiche che ci
angustiano, questo nostro tempo ci mette tra le mani il “dono dell'incertezza”,
che ci obbliga a non procedere in automatico (“si è sempre fatto così”!) e a
riaprire il cantiere evangelico dell'ascolto della Parola per discernere quanto
lo Spirito intende suggerire alle chiese.
A questa Parola siamo affidate (At 20,32):
che il nostro cuore la mediti giorno e notte (Sal. 1)!
Lidia Maggi