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COMPAGNIA MISSIONARIA
DEL SACRO CUORE
una vita nel cuore del mondo al servizio del Regno...
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Vivere comunione e missione con cuore accogliente e misericordioso. Prospettiva biblica
Posted by Lidia Maggi

 

Il titolo della relazione offre una chiave di lettura che viene dalle Scritture. La Bibbia è una biblioteca, che apre per le sue lettrici una pluralità di prospettive, numerose vie d'accesso. “C'è un libro per ogni cosa”, potremmo dire, parafrasando il Qohelet! E tuttavia, tutte le narrazioni bibliche, per quanto molto differenti tra loro, sorgono da una medesima grammatica, i cui contenuti essenziali possiamo ritrovare proprio in questo titolo. Mi limiterò, dunque, a dare peso a queste parole, a evidenziarne la posta in gioco, così come viene messa a fuoco nelle Scritture.

1. Innanzitutto, “vivere”. È proprio il verbo giusto, dal punto di vista biblico. Dal nostro punto di vista, probabilmente, gli avremmo preferito il verbo “fare” o la sua variante più poetica: “creare”. Per noi la comunione e la missione appartengono all'ordine delle azioni. Soprattutto oggi, quando le chiese tutte, gli ordini religiosi, le varie associazioni ecclesiali sentono il fiato corto di presenze ridotte ai minimi termini, ecco che diviene evidente l'urgenza di rimpolpare le fila, pena l'esaurimento dell'esperienza. Certo, non siamo poi così spudorate da affrontare questa sfida in termini di numeri, con una mentalità da marketing; ricorriamo a parole più religiose, come comunione e missione. Ma al fondo della questione, magari in modo non del tutto consapevole, pensiamo che si tratti di agire, di predisporre nuove strategie, aggiornando il vocabolario e rendendo più appetibile la proposta.

Intendiamoci bene: non è che la domanda sul “fare” sia sbagliata. Ma non funziona come punto di partenza. La Bibbia ci suggerisce di essere più radicali, ovvero di andare alla radice. Di risalire a monte di quella valle in cui si muovono le nostre legittime preoccupazioni. E alla radice di tutto ci sta il “vivere”, accompagnato dalla domanda antropologica: “cosa significa vivere?”. La Bibbia, più che un discorso umano su Dio – un libro di teologia – presenta il discorso divino sull'umanità – un libro di antropologia. Forse, le chiese, hanno letto le Scritture con l'intenzione di estrarre la retta dottrina, il “Credo” costitutivo dell'esperienza ebraico-cristiana e hanno lasciato in ombra il fatto che la fede è il lievito per la pasta della vita. O, per dirla con la conclusione del Vangelo secondo Giovanni: che la Parola testimoniata nelle Scritture intende sì suscitare la fede; ma quest'ultima è in funzione del vivere. Il Quarto evangelista dichiara che i segni da lui attestati “sono stati scritti, affinché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e, affinché, credendo, abbiate vita nel suo nome” (Gv 20,31). Dunque, si ascolta la Parola per credere; ma si crede per vivere. Gesù è venuto affinché tutte e tutti “abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza” (Gv 10,10). Alla scuola dell'evangelista Giovanni, possiamo apprendere la passione per la vita. E riscoprire la prospettiva del “vivere” significa liberare la fede dalle secche moralistiche e dottrinarie per mettere in evidenza il suo carattere esistenziale. Dalla Genesi all'Apocalisse, la Bibbia vuole essere un canto della vita. Un canto intelligente, realistico, ben consapevole che la vita può essere tradita. È quanto viene espresso col termine “peccato”. Per le nostre orecchie, questa parola suona moralistica, come trasgressione della Legge. Ma trasgredire una norma si dice “reato”, non “peccato”! Il termine ebraico, alla lettera, significa “fallire il bersaglio”. Si tratta, dunque, di una prospettiva esistenziale: tu desideri essere felice ma operi delle scelte che ti allontanano dalla meta, ti portano a fallire il bersaglio. Il senso del termine ebraico che traduciamo con “peccato” lo possiamo cogliere nell'uso esclamativo che ne facciamo: “peccato che non hai raggiunto quanto desideravi! Peccato che non sei felice!”.

Alla radice di tutto c'è il vivere. Ma noi, esseri umani, non nasciamo con le istruzioni per l'uso, non sappiamo in partenza cosa significhi vivere. Respiriamo, ci muoviamo, cresciamo: ma il senso del nostro vivere non emerge in automatico. Di qui la domanda: “cosa significa vivere?”. Domanda sapienziale per eccellenza, che va continuamente posta, perché mai esaurita. Domanda da riproporre, oggi, in cui abbiamo a disposizione tutte le risposte: ce le fornisce il signor Google! Oggi, il problema non sono le risposte ma le domande. Quali domande ci facciamo? Semplici quiz, che prevedono una risposta esatta (prospettiva del cosiddetto “problem solving”)? O siamo capaci di domande che durano un'intera esistenza, domande sapienziali sul “come vivere” più che sul “cosa fare”? Che bello se una chiesa, un ordine religioso fosse in grado di testimoniare questa radice dell'esperienza credente. Così che chi ci guarda dall'esterno non pensi immediatamente a dei venditori di un prodotto religioso, che cercano di convincere le persone ad entrare nel loro negozio. Se ci riducessimo a questo, avremmo già in partenza tradito l'evangelo della grazia, ovvero dell'amore gratuito di Dio! Com'è differente stare nella compagnia degli esseri umani come persone che si chiedono “cosa significhi vivere” e che testimonino che la fede ha qualcosa da dire proprio a questo riguardo, che non è una “cosa di chiesa” ma ha a che veder con l'arte di vivere. Di vivere bene, non come schiavi, ma in una terra libera; non come succubi della mentalità del faraone ma provando a battere la strada alternativa suggerita dalle “dieci parole” di libertà. Il Dio d'Israele e di Gesù, che raccoglie il nostro grido e desidera liberarci dalle catene, continua a dirci: “scegli la vita” (Dt 30). Perché non è vero che la vita procede in automatico – basta che respiri e che il cuore continui a battere. Lo vediamo bene oggi, in una società tendenzialmente depressiva, in mezzo ad un'umanità spaventata, stanca, arrabbiata. Noi per prime e poi nella veste delle testimoni dobbiamo tenere viva la domanda sul “vivere”.

2. Per la Bibbia, la vita ha un centro, ovvero il “cuore”. Sgombriamo il campo dai fraintendimenti: per le Scritture “cuore” non ha quell'accezione romantica che ha per noi. Il cuore non è la sede dei sentimenti. O meglio, non è solo questo. Nel mondo delle Scritture, il cuore è la cabina di regia di ogni espressione umana. Col cuore, certo, si sente, ma anche si pensa, si decide, si agisce. Se noi diciamo alle nostre ragazze: “usa la testa”, la Bibbia direbbe: “usa il cuore”. La qualità della vita la si gioca nel cuore. Un cuore che può essere “ingannevole più di ogni altra cosa, e insanabilmente maligno” (Ger 17,9; cfr. Gen 6,5; 8,21); un cuore che può ripiegarsi su di sé (così Lutero definiva la condizione di peccato: “cor incurvatum”) e divenire indurito (Es 7,13), di pietra (Ez 11,19; 36,26). Ma che può anche essere un cuore di carne, capace di amare Dio con tutto se stesso (Dt 6). O con le parole del nostro titolo: il cuore può essere misericordioso ed accogliente ma anche spietato ed egoista. Le parole dello Shemà Israel, che costituiscono la preghiera quotidiana delle sorelle e dei fratelli ebrei, si presenta come un'intensa riflessione sul cuore. È dal cuore che sorge la passione dell'amore e la scelta di dare forma alla fede seguendo i comandi del Signore. Alla lettera, viene detto che la parola che Dio ha rivolto al suo popolo sta “sul tuo cuore”. Non “dentro”, come un dato già acquisito e fatto proprio. Piuttosto, come una realtà che sta sull'orlo del cuore; dipende da noi farla cadere dentro o lasciarla scivolare fuori. Perché sia la Parola ad educare il cuore e dare forma all'esistenza, occorre domandare – come fa Salomone – un “cuore che sa ascoltare” (1 Re 3,9). E' il cuore, più che l'orecchio, l'organo dell'ascolto. L'arte della meditazione prova a prendere sul serio questa indicazione che non esaurisce il percorso della Parola nel suono che colpisce il timpano dell'orecchio e nel significato colto dal cervello. Affinché la Parola dia forma all'esistenza è necessario che si radichi nel cuore, orientando l'intelligenza, certo, ma anche il sentire, il gustare, il discernere, il decidere, l'agire.

Nel Nuovo Testamento, forse è soprattutto l'evangelista Matteo ad indicarci un'interessante prospettiva nel custodire il cuore. Matteo, infatti, presenta Gesù certo come il Signore – “l'Emmanuele, il Dio con noi” - e come il Salvatore; ma per lui, Gesù è soprattutto il Maestro. Il Vangelo secondo Matteo è costruito attorno a cinque grandi discorsi che Gesù rivolge ai suoi discepoli affinché divengano scribi sapienti, in grado di estrarre dal loro tesoro cose nuove e cose vecchie (Mt 13,52). Tutti questi discorsi, a partire dal primo, quello pronunciato sul monte (Mt 5-7), mirano ad illustrare la sapienza del Regno e a farla radicare nel cuore. Così che il cuore divenga misericordioso e accogliente persino nei confronti dei nemici. Dietro certe indicazioni che a noi suonano paradossali – porgere l'altra guancia, dare anche la tunica... - vi è in gioco una differente sapienza delle relazioni, sottratte al limite delle re-azioni simmetriche (se l'altro mi picchia, anch'io faccio altrettanto) e capaci di spiazzare l'interlocutore, di promuovere gesti creativi. In un momento storico in cui prevalgono le reazioni impulsive, di pancia, con tutto il loro carico di rancore, di vendetta e di odio, oltre a deplorare questa pericolosa deriva societaria, occorre lavorare a monte per formare cuori che sono in grado di promuovere un differente vedere, sentire, valutare, agire.

La misericordia e l'accoglienza non sono sentimenti spontanei. Tutt'altro! È necessario che il cuore faccia esperienza della grazia, che perdona e accoglie. Che il cuore senta le parole di Gesù: “misericordia voglio, non sacrificio”; e “l'avete fatto a me”.

Le chiese, così attente alla formazione catechistica e all'educazione sacramentaria, spesso dimenticano che alla base di ogni proposta di fede vi è l'educazione del cuore. Oggi, in un momento in cui abbiamo smarrito il senso dell'essere umani, c'è un lavoro pedagogico di tipo sapienziale, un'educazione dei cuori, che domanda di divenire prioritario.

3. Solo a questo punto possiamo affrontare i due sostantivi del titolo. Innanzitutto, la comunione. Per niente scontata nel nostro contesto storico, la comunione è il frutto maturo della sapienza relazionale. Il discorso della comunione si avvale della grammatica dei legami, di uno sguardo sulla vita che vada oltre l'idolo del nostro “io” recuperando la verità del “noi”. Di nuovo, è in gioco il “vivere”, la domanda su cosa significhi vivere. Si tratta di cogliere tutta la portata di quella parola originaria, detta da Dio: “non è bene che l'essere umano sia solo” (Gen 2,18). In una creazione “buona”, la prima cosa “non buona” è il pensarsi senza l'altro, come se ci facessimo da soli e non fossimo “figlie” e “figli”. Può essere utile leggere l'opera in due volumi di Luca – il suo Vangelo e il libro degli Atti degli apostoli – come una riflessione sul vivere la comunione. La comunione offerta da Dio ad un'umanità che la fugge e si ritrova perduta – come i due figli della parabole (Lc 15); una comunione vissuta nella comunità ecclesiale, come nei sommari di Atti (2, 42ss; 4, 32ss), dove vengono esplicitati gli ingredienti di base della comunione. Alla scuola di Luca impariamo che la comunione non è mai dato di partenza, ma sorpresa delle “seconde volte”. In principio, c'è il rifiuto, come quello patito da Gesù a Nazareth (Lc 4) o dalla prima chiesa di Gerusalemme (At 5: Anania e Saffira). Solo la misericordia e l'accoglienza reciproca possono riaprire i sentieri interrotti della comunione. Impariamo che la logica della comunione non ha niente a che spartire con il calore settario, avendo un respiro universale, che giunge fino ai confini (non solo fisici, ma anche esistenziali) della terra (At 1,8: programma dato dal Risorto). E che l'universalità delle relazioni si misura col criterio del povero, con la sfida di essere una realtà portatrice di una buona notizia per i più poveri (Lc 4,18). Ma questo respiro ampio della comunione prende forma “a partire da sè”: solo una chiesa comunionale può annunciare l'evangelo della fraternità. La comunione, prima di essere un tema, è uno stile, un modo di vivere la fede camminando insieme (sinodo!), superando le barriere che dividono le donne e gli uomini, gli ebrei e i pagani, gli schiavi e i liberi. Una chiesa dal volto fraterno, portatrice della sapienza dei legami, capace di collaborare con tutte e tutti, che antepone il bene comune alla propria affermazione. Scommettere sulla comunione significa convertirsi da un modo d'essere autoreferenziale, anche quando si è tentati di giustificarlo in nome della fedeltà a Cristo. Significa pensarsi come piccoli laboratori di relazioni significative, creative, dove nulla è scontato e tutto va ripensato.

4. Infine, la missione. Che non è l'appendice alla comunione, una sua dilatazione che coinvolge altre persone. L'urgenza della missione non può essere dettata da esigenze di sopravvivenza o di espansione. Missione non è proselitismo o marketing al fine di rimpolpare le fila sempre più esigue. È un sentirsi “mandate”, senza sapere bene dove andare, come muoversi, cosa fare. Almeno, per l'evangelista Marco – come per Abramo - si tratta di questo. Non della marcia trionfale di chi intende conquistare il mondo, forte della verità ricevuta e della fede salda con cui la si è accolta. Con linguaggio paradossale, Marco racconta di discepoli e discepole che non capiscono, fraintendono, sperimentano la loro inadeguatezza; e in questa postura, che sembrerebbe congelare ogni desiderio missionario, provano, ogni volta daccapo, a ricominciare a stare con Gesù e ad andare ad annunciare la parola e la forza del Regno (Mc 3,13-15). Normalmente, non si attingono da Marco le indicazioni per la missione. Personalmente, ritengo che oggi questo racconto evangelico sia illuminante per muoverci in un contesto ingarbugliato, in cui ci sentiamo spiazzate e inadeguate. Oggi, la missione deve saper coniugare i linguaggi opposti della passione e della fragilità. Oggi, la fede può essere testimoniata da chi condivide l'incertezza e sperimenta sulla propria pelle il fallimento. Come le discepole descritte da Marco, che di fronte all'annuncio della resurrezione “fuggono, senza dire niente a nessuno, perché avevano paura” (Mc 16,8). Questo scandaloso finale di racconto sembra mettere sotto scacco il senso stesso dell'evangelo. Dove sta la buona notizia per un'umanità in fuga da se stessa, spaventata e senza parole? Per Marco, l'evangelo si nasconde nel versetto precedente (16,7), dove risuona la parola del messaggero celeste: “vi precede in Galilea; là lo vedrete”. I credenti non sono migliori degli altri; non hanno una marcia in più. Fragili e fallibili, possono contare unicamente nella speranza che il Risorto continua a precederli e li rimanda in Galilea, laddove tutto aveva preso inizio. Un po' come il gioco dell'oca, si tratta di tornare alla partenza, di ricominciare dall'inizio. Per Marco solo i ripetenti possono essere missionari credibili. Che condividono realmente (non per finta, per strategia) la fragilità della condizione umana, sorretti dalla speranza che ci è sempre data una “seconda volta”. Quando si fa i conti con la propria inadeguatezza, si smette di essere giudicanti e si coltivano relazioni empatiche con tutti, anche con i falliti della vita, con i dannati della terra. Imparare alla scuola di Marco l'arte della missione significa umanizzare la fede, riscoprire la comune condizione umana, scommettere sulla possibilità di ricominciare. Significa essere missionari di umanità, per poter essere testimoni credibili di quel Dio che ci manda ad annunciare che il suo Regno, nonostante tutto, è vicino.

Alla scuola dei quattro Vangeli, siamo chiamate a ripensare le grandi parole della fede, perché possano essere significative per noi e per le donne e gli uomini del nostro tempo.

Forse, in mezzo alle molte fatiche che ci angustiano, questo nostro tempo ci mette tra le mani il “dono dell'incertezza”, che ci obbliga a non procedere in automatico (“si è sempre fatto così”!) e a riaprire il cantiere evangelico dell'ascolto della Parola per discernere quanto lo Spirito intende suggerire alle chiese.

A questa Parola siamo affidate (At 20,32): che il nostro cuore la mediti giorno e notte (Sal. 1)!

Lidia Maggi

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