(Seconda parte )
Toccare con mano, sullo stile del
samaritano…
(…presentando il volto della misericordia e della
tenerezza).
Ha a che fare con la missionarietà.
Sempre nel discorso
consegnato all’Udienza con i Responsabili degli Istituti secolari italiani papa
Francesco afferma: “In forza dell’amore
di Dio che avete incontrato e conosciuto, siete capaci di vicinanza e di
tenerezza. Così potete essere tanto vicini da toccare l’altro, le sue ferite e
le sue attese, le sue domande e i suoi bisogni, con quella tenerezza che è
espressione di una cura che cancella ogni distanza. Come il Samaritano che
passò accanto e vide e ebbe compassione. E’ qui il movimento a cui vi impegna
la vostra vocazione: passare accanto ad ogni uomo e farvi prossimo di ogni
persona che incontrate, perché il vostro permanere nel mondo non è
semplicemente una condizione sociologica, ma è una realtà teologale che vi
chiama ad uno stare consapevole, attento, che sa scorgere, vedere e toccare la
carne del fratello”.
In EG al n.49 scriveva: “Preferisco una Chiesa accidentata, ferita e
sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la
chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze. Non voglio una
Chiesa preoccupata di essere il centro e che finisce rinchiusa in un groviglio
di ossessioni e procedimenti. Se qualcosa deve santamente inquietarci e
preoccupare la nostra coscienza è che tanti nostri fratelli vivono senza la
forza, la luce e la consolazione dell’amicizia con Gesù Cristo, senza una
comunità di fede che li accolga, senza un orizzonte di senso e di vita. Più
della paura di sbagliare spero che ci muova la paura di rinchiuderci nelle
strutture che ci danno una falsa protezione, nelle norme che ci trasformano in
giudici implacabili, nelle abitudini in cui ci sentiamo tranquilli, mentre
fuori c’è una moltitudine affamata e Gesù ci ripete senza sosta: “Voi stessi
date loro da mangiare”.
Considerazioni.
Anche la preoccupazione
per le vicende prettamente sociali rientra nello spirito missionario della
Chiesa di papa Bergoglio, perché il Vangelo è per tutti e, se qualcuno può
essere privilegiato da questo movimento ‘in uscita’, questi deve essere il
povero, colui che è stato ferito nella battaglia della vita e cerca qualcuno
che gli sia prossimo.
La missionarietà è insita
nella consacrazione secolare: la consacrazione, dicevamo, consiste nel
dedicarsi al progetto di Dio sulla storia e la secolarità consiste
nell’abitarla, condividendone “gioie e speranze, tristezze e angosce”. Da
questa posizione, che per noi costituisce un vero e proprio stato di vita, si
impone la testimonianza del Vangelo.
La profezia sta nella
chiamata a soccorrere senza giudicare, a evidenziare il positivo all’interno di
qualsiasi situazione, a “non aver paura della tenerezza”, a rivalutare tutte
quelle virtù umane che rendono vero ogni tipo di rapporto e solidale l’impegno
per un mondo nuovo.
… nella povertà, gratuità, disponibilità
Se
la radice della testimonianza è l’amore gratuito di Dio e la scelta di Cristo,
il segno caratteristico è la gratuità, la semplicità, il disinteresse, la pace.
Questo
atteggiamento spirituale di povertà-gratuità ci libera da quell’ansia di dover
fare, organizzare, proporre, convertire… per verificarci su come viviamo noi la
fede, l’amore, il perdono, la pace, il rapporto con le persone, la condivisione
con chi soffre. Spesso il fare per gli altri diventa una scusa per non
verificare noi stesse.
Un
altro aspetto della povertà riguarda i mezzi. Il grande, unico mezzo scelto da
Gesù per la missione è la persona, quelle persone concrete che lo seguivano.
Possiamo anche usare mezzi moderni, sussidi aggiornati per attirare la gente,
ma il vero, unico mezzo della missione siamo noi, la nostra persona, quello che
noi siamo e cerchiamo di diventare.
Gesù
non si è servito dei grandi mezzi, anche se ne aveva la possibilità: non ha
chiamato studiosi ed esperti, che pullulavano anche a quel tempo; non ha
costruito scuole bibliche o un grande tempio alternativo a quelli di
Gerusalemme e del Garizim. Ha scelto delle persone e le ha mandate. Ha
stabilito con esse un rapporto personale e le ha mandate a creare, a loro
volta, dei rapporti personali (di casa in
casa), portando un primo annuncio essenziale: la pace, l’amore di Dio che è
Padre, la fiducia, la speranza.
… nell’ordinarietà
La secolarità consacrata è l’esperienza di
donne e di uomini che amano la vita, che vivono con gioia la loro esperienza
familiare e sociale, le relazioni con gli amici e con i vicini di casa, la
politica e la professione. I laici consacrati sono persone che sanno apprezzare
l’umanità in tutte le sue dimensioni: affetti, responsabilità, fatica, amore;
che sanno dare un senso alle esperienze difficili che segnano l’esistenza di
tutti: la malattia, il dolore, il limite, la solitudine, la morte.
L’ordinarietà è la paziente assimilazione
delle condizioni comuni del vivere: i linguaggi della gente comune, i linguaggi
familiari, i ritmi vitali, le sfumature delle situazioni, i conflitti
quotidiani, le pene consuete, le fatiche di chi ci vive accanto, gli aspetti
sociali e individuali del vivere.
L’ordinarietà vissuta in pienezza esprime
lo spessore del nostro radicarci nella storia.
Una
secolarità vera detesta gli artifici, i privilegi, le corsie preferenziali,
quelle che magari portano ad avere un posto di primo piano, un trattamento
migliore, nell’ambito dei ruoli e delle responsabilità che si assumono.v
La secolarità consacrata ci colloca nelle “condizioni ordinarie della vita”.
Dovremmo tentare di non cadere nello schematismo: ci sono condizioni ordinarie
e condizioni straordinarie, dove l’accento sulla straordinarietà assume il tono
di una maggiore valorizzazione…..quasi che l’ordinarietà fosse condizione di
serie B.
Allora potremmo chiederci: “Che cosa dire
della nostra disponibilità al nascondimento, della discrezione con cui viviamo
in mezzo agli altri?
Che cosa dire del nostro modo di vivere le
condizioni ordinarie?
Come fare perché la nostra vita non si
trasformi mai in una ostentazione? In un’esibizione della nostra bravura?
Rivalutare il senso di appartenenza…
(…alla propria comunità
vocazionale, dove si sperimenta l’essere Chiesa povera per i poveri e si
diventa “antenne”).
Ha
a che fare con la fraternità.
Il
discorso consegnato dal Papa all’Udienza del 10 maggio 2014 conteneva anche
questa affermazione: “E’ urgente
rivalutare il senso di appartenenza alla vostra comunità vocazionale che,
proprio perché non si fonda su una vita comune, trova i suoi punti di forza nel
carisma. Per questo, se ognuno di voi è per gli altri una possibilità preziosa
di incontro con Dio, si tratta di riscoprire la responsabilità di essere
profezia come comunità, di ricercare insieme, con umiltà e con pazienza, una
parola di senso per il Paese e per la Chiesa, e di testimoniarla con
semplicità. Voi siete come antenne pronte a cogliere i germi di novità
suscitati dallo Spirito Santo, e potete aiutare la comunità ecclesiale ad
assumere questo sguardo di bene e trovare strade nuove e coraggiose per
raggiungere tutti”.
EG
ai nn.91-92 approfondisce: “E’ necessario
aiutare a riconoscere che l’unica via consiste nell’imparare a incontrarsi con
gli altri con l’atteggiamento giusto, apprezzandoli e accettandoli come
compagni di strada, senza resistenze interiori. Meglio ancora, si tratta di
imparare a scoprire Gesù nel volto degli altri, nella loro voce, nelle loro
richieste. E’ anche imparare a soffrire in un abbraccio con Gesù crocifisso
quando subiamo aggressioni ingiuste o ingratitudini, senza stancarci mai di
scegliere la fraternità.
(…) Proprio in questa epoca, e anche là
dove sono un ‘piccolo gregge’ (Lc 12,32), i discepoli del Signore sono chiamati
a vivere come comunità che sia sale della terra e luce del mondo (cfr Mt
5,13-16). Sono chiamati a dare testimonianza di una appartenenza
evangelizzatrice in maniera sempre nuova. Non lasciamoci rubare la comunità!”.
Considerazioni.
Le
relazioni costituiscono il tessuto su cui ricamare la ricchezza dei nostri
carismi. Senza relazioni tutto si sfalda.
E
parlo delle relazioni esistenziali nei diversi ambiti di vita e di lavoro,
nelle diverse situazioni psicologiche e sociali, in famiglia, nella comunità
cristiana e in quella civile, relazioni di cui l’esperienza del gruppo diventa
autentico “laboratorio”.
Le
ricadute più significative sono quelle del perdono, della collaborazione, del
discernimento comunitario, della fraternità.
La
fraternità porta a stare sullo stesso piano, non ammette superiorità o
sudditanza, richiama il concetto di creaturalità, porta ad accogliere povertà e
fragilità proprie ed altrui, motiva lo scambio non solo in termini di intesa
psicologica, ma soprattutto di condivisione della fede e degli impegni.
La
comunità vive delle esperienze di ciascuno dei suoi membri, gioisce e soffre
con loro e attraverso queste esperienze viene a contatto con il mondo e con la
storia, imparando a cogliere i segni della presenza del Risorto e irradiando il
gusto dell’appartenenza.
La
profezia sta nella chiamata a vivere le relazioni interpersonali, soprattutto
all’interno dei nostri gruppi, non come una circostanza ma come il luogo
dell’ascolto, del dono di sé, della ricerca e della testimonianza della propria
identità.
Trasmettere la gioia…
(…dell’incontro con Cristo e della vicinanza ai
fratelli).
Ha a che fare con la spiritualità.
Sempre nel discorso del 10
maggio leggiamo: “Insieme ed inviati,
anche quando siete soli, perché la consacrazione fa di voi una scintilla viva
di Chiesa. Sempre in cammino con quella virtù che è una virtù pellegrina: la
gioia”.
Del tema della gioia è
intrisa tutta l’EG. Si apre così: “La
gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano
con Gesù. (…) In questa Esortazione desidero indirizzarmi ai fedeli cristiani,
per invitarli a una nuova tappa evangelizzatrice marcata da questa gioia e
indicare vie per il cammino della Chiesa nei prossimi anni” (n.1). “Per essere evangelizzatori autentici occorre
anche sviluppare il gusto spirituale di rimanere vicini alla vita della gente,
fino al punto di scoprire che ciò diventa fonte di una gioia superiore” (n.268).
Considerazioni.
Non è un generico invito
alla gioia, ma la sottolineatura che la gioia è, nello stesso tempo, contenuto
e forma dell’annuncio. La consacrazione secolare mette in comunione piena con
la sorgente della gioia, che è Cristo Gesù e il suo Vangelo, e nello stesso
tempo domanda una testimonianza che passa più attraverso la vita che la parola.
Se i nostri occhi non sprizzano gioia vuol dire che non abbiamo incontrato
veramente il Signore e la nostra fede appare stanca, faticosa, senza attrazione.
Acutamente
Paolo VI, nell’esortazione apostolica Gaudete in Domino (9 maggio 1975)
– uno dei testi più belli del suo magistero pastorale – afferma: “Ci sarebbe
bisogno di un paziente sforzo di educazione, per imparare o imparare di nuovo a
gustare semplicemente le molteplici gioie umane, che il Creatore mette già sul
nostro cammino: gioia esaltante dell’esistenza e della vita; gioia dell’amore
casto e santificato; gioia pacificante della natura e del silenzio; gioia
talvolta austera del lavoro accurato; gioia e soddisfazione del dovere
compiuto; gioia trasparente della purezza, del servizio, della partecipazione;
gioia esigente del sacrificio. Molto spesso, partendo dalle gioie naturali, il
Cristo ha annunciato il regno di Dio” (n.1).
Nelle relazioni secolari,
le più diverse, il primo impatto è dato proprio dalla capacità di irradiare
serenità, fiducia, entusiasmo. La comunicazione della fede ha come obiettivo la
pienezza della vita, del suo senso, della sua realizzazione, della sua
felicità.
La gioia del cristiano non
è frutto della fuga dalle problematiche del quotidiano, ma certezza, anche
nella prova, dell’amore del Signore che ci raggiunge, ci coinvolge e ci salva.
Così
testimoniare è la gioia di poter annunciare quello che, personalmente, ci dà
vita e giovinezza in cuore. Anche quando i 20 anni si sono o si saranno
moltiplicati per 4 e oltre. Testimoniare è più forte delle mie fatiche fisiche,
morali e spirituali.
Vi
auguro di conservare sempre questo atteggiamento di andare oltre, non solo
oltre, ma oltre e in mezzo, lì dove si gioca tutto: la politica, l’economia,
l’educazione, la famiglia…
Lo stile della nostra vocazione è
l’assumere questa dimensione dello stare dentro, dello stare accanto, del non
appartarsi nel vivere la vita cristiana, del guardare al mondo come realtà
teologica.
Questa dimensione profonda, direi
strutturale, ha all’origine la disponibilità a mettersi accanto, ad accogliere,
a condividere ciò che è nostro con chi è in condizioni di minori risorse, a
caricarsi dei pesi, a farsi prossimo, a prendersi cura sul modello del buon
Pastore e del Samaritano.
Che
dire di noi? È vero, respiriamo tutti noi un clima di conflittualità sociale
che pervade anche noi e i nostri ambienti, in cui regnano le spigolosità, le
rigidità e le fatiche relazionali, che impediscono di fatto il dialogo sereno,
la difesa intransigente delle proprie posizioni, precludendo un ascolto sereno
dell’altro. Un clima che gradualmente ci sospinge nell’insufficiente dialogo e
così non favorisce l’incontro e l’interscambio.
Ma
tali constatazioni ci dicono che siamo chiamate a fare un lavoro quotidiano di
discernimento, imparando a leggere la cifra dell’attualità e riscoprendo i
segni dello Spirito in tutto, mediante una lettura ordinaria dei segni dei
tempi.
«È
necessario cogliere l’emergenza della vita – scrive un teologo italiano, Carlo
Molari, morto da poco – le forme nuove che essa cerca di esprimere. Dobbiamo
ricordare però che i segni dei tempi emergono sempre in ambiti di frontiera
della vita e della storia quindi, marginali e periferici. E’ tuttavia
attraverso queste frontiere che si apre un cammino verso i nuovi traguardi».
Dunque,
è su questi crinali del luogo, del tempo e della storia, che le nostre
esperienze possono compenetrarsi e aiutarsi reciprocamente con una fecondità di
vita e di pensiero.
Maria Rosa Zamboni