Le parole di s. Paolo e di p. Dehon, citate sopra, esprimono
alcuni atteggiamenti fondamentali perché un gruppo di persone possa stabilire
rapporti di comunione. La fraternità da voi scelta come condizione in cui
esprimere la vostra vocazione – anche se in forme diverse – ha il suo fondamento nella vita teologale, dal
momento che il segreto della felicità dell’uomo e di una nuova umanità sta nel
mistero stesso della Trinità: la comunione.
Premessa – Comunione: un’urgenza attualissima
Sentirsi uniti da un carisma – la
spiritualità del Cuore di Cristo – e dal valore della comunione, può darci la sensazione
di pensare e sentire tutti allo stesso modo, poiché abbiamo valori e linguaggio
comuni, che danno una sensazione di omogeneità. Di fatto, la realtà è più
complessa. Ogni persona aspira a valori e atteggiamenti che ritiene importanti
per la propria esistenza e cerca di tradurli in comportamenti coerenti. Le
aspirazioni ideali, tuttavia, anche se sono fondamentali non bastano:
costituiscono il punto di partenza, che deve incarnarsi in scelte di
comportamento coerenti con tali valori. Il cammino della nostra vita sta tutto
in questa costante tensione tra l’ideale
oggettivo e l’impegno soggettivo
di tradurlo nella vita quotidiana.
Davanti alla spiritualità del Cuore di
Cristo, declinata nella vita e negli scritti di p. Dehon – e mediata per la Compagnia Missionaria da p. Albino
Elegante – ognuno sente risuonare dentro di sé alcuni valori che percepisce più
“suoi”, più in sintonia con il suo essere. Questa risonanza interiore,
tuttavia, va vissuta con una particolare avvertenza: ciò che uno sente
risuonare dentro di sé come elemento più in sintonia con la propria realtà
personale è semplicemente il punto di partenza per fare spazio a tutto il
resto del Vangelo. Lo stesso va detto degli aspetti che sente più
faticosi: essi indicano i punti più bisognosi di attenzione e di
comprensione per farli oggetto del proprio cammino di conversione.
A livello generale, infatti, è
importante vigilare per non ridurre la spiritualità a una realtà
teorica o puramente soggettiva. Pur sentendo più centrali ed
evocativi per sé alcuni valori del Vangelo, ognuno di noi non può/non deve
confondere una parte con il tutto ma, a partire da ciò che sente più sintonico
con la propria realtà personale: tutti siamo chiamati a vivere una vita interamente
evangelica, che ci conduca a essere un’umile incarnazione di Dio Amore.
Il mondo di oggi, così ferito e offeso
nelle relazioni ha bisogno di questo. Infatti, oggi in ogni ambito della nostra
società, la libertà
è percepita come un valore che divide più che unire. Essa viene sempre più
spesso chiamata in causa per mettere distanza, per marcare dei limiti tra le
persone, non per favorire la loro unione. Oggi, la competizione
ha un ruolo crescente, anzi, sembra essere il criterio dominante: egocentrismo,
arrivismo, carriera, culto del successo ad ogni costo, arrivare a essere i
primi e meglio degli altri... sono questi i nuovi “comandamenti” della cultura
attuale. E anche noi, in comunità o in famiglia, non siamo esenti da questi
idoli e dalle dinamiche che innescano. Il risultato, lo vediamo, è la rottura delle relazioni umane.
Il mondo intero – non solo quello
occidentale – è malato, colpito da un morbo che progressivamente lo corrode in
ciò che possiede di più umano: la
capacità di stabilire e mantenere relazioni permanenti e fedeli, la capacità di comunione, gratuità, amore,
appartenenza, unità... L’esaltazione unilaterale dell’individuo come
soggetto che può trovare la propria realizzazione in se stesso, sganciato dalla
comunità e dalla famiglia, o addirittura in contrapposizione agli altri, è il leit-motiv
della cultura attuale. Non importa se il nostro tempo si caratterizza anche per
fenomeni dilaganti come la depressione, il suicidio, l’insoddisfazione per la
vita: nonostante l’enorme bisogno di comunicazione e di comunione, la nostra
epoca sembra paradossalmente complottare contro di essa.
D’altra parte, ciò è riconducibile a un dato ontologico: in
tutti noi c’è il desiderio di
comunione/amore/amicizia, ma queste realtà ci fanno anche paura. C’è un aspetto di fascino
e paura nell’incontro con l’altro, chiunque esso sia, perché la diversità
dell’altro ci mette in discussione, perché intuiamo che l’aprirsi all’“altro” provoca ed esige un cambiamento.
Quando noi consacrati scegliamo di vivere alla luce del
Vangelo – in comunità o in famiglia – accogliamo l’invito a intraprendere
un’avventura misteriosa, enormemente più grande della nostra capacità di
immaginazione. Non abbiamo scelto di vivere in comunità perché ci sentiamo già
capaci di vivere in modo evangelico. Neppure possiamo aspettarci di godere un
clima di rapporti perfetti, ideali, forniti dai fratelli o dalle sorelle.
Piuttosto, intraprendiamo la vita comunitaria perché crediamo nella possibilità e nella
verità di tali valori per noi e per il futuro del mondo; perché crediamo e speriamo che solo nella tensione
costante a un amore semplice, povero, disinteressato diventiamo davvero “figli”
del Dio di Gesù Cristo e costruiamo il suo Regno.
Vivere insieme alla luce del comandamento dell’amore è un
ideale che ci ripetiamo spesso, ma è un progetto molto al di sopra della nostra
genialità e delle nostre povere forze, e riserva continue sorprese. Cominciamo
questo cammino, ma non sappiamo dove ci condurrà e cosa ci chiederà. Crediamo e
speriamo però che la vocazione
ricevuta porta con sé la grazia per riconoscere quegli indizi della storia che
ci permetteranno di sintonizzarci con il cuore di Dio, purché sia
tenace e visibile nei gesti quotidiani la nostra continua ricerca e apertura al
Bene, la scelta di mettere l’amore e la riconciliazione di Cristo a fondamento
della nostra vita.
Il comandamento dell’amore – amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi
(Gv 15,13; 1Gv 1,3-4) – è il fondamento della vocazione cristiana e della
spiritualità del Cuore di Cristo. Ciò significa: dare la vita. E per non cadere
nel moralismo o nel soggettivismo, in una spiritualità disincarnata o in un
attivismo autoreferenziale, una sana spiritualità ci fa tenere unite contemplazione e azione,
per vivere in un
atteggiamento di discepolato concreto, per rimanere nella sana tensione verso la libertà di amare come
ama Dio.
A partire dal testo ricco di significati dei vostri Statuti di Missionarie e Familiares
e dalle vostre risposte, vi presento alcuni spunti di riflessione per una
verifica e un approfondimento specifico che aiuti a concretizzare, non solo a
conoscere, i valori propri della spiritualità del Cuore di Gesù.
1. Una spiritualità di
comunione
Per evitare voli pindarici,
chiediamoci: che cosa si
intende con il concetto di “spiritualità”? Intendiamo una vita teologale, cioè
fede e speranza vissute come amore responsabile nella/della storia. Proprio per vivere a fondo la
storia degli uomini noi cerchiamo costantemente la sintonia con il
Cuore di Dio-Amore, unico principio attivo di ogni possibilità di
comunione. La nostra vita fraterna, in comunità e
in famiglia, trova
qui le sue radici.
Tutto inizia dall’atteggiamento
dell’accoglienza. Si tratta di
accogliere il dono dello Spirito di Dio che ci vuole costruire
a sua immagine; accogliere l’Amore che ci precede e ci viene incontro sempre.
L’Amore accolto ci porterà a essere figli,
cioè a essere immagine di Dio. E poiché Dio non è solitario, ma mistero di
comunione, anche noi troviamo
la nostra identità nell’apertura e nella comunione con l’altro
(natura, uomini, vicende, Dio). Solo rimanendo sempre aperti all’alterità si costruisce in noi
l’immagine di Dio, scopriamo la nostra identità.
Noi siamo chiamati a vivere insieme per accoglierci: siamo affidati gli uni agli
altri per essere segno di quell’accoglienza originale di Dio che ci fa essere e
ci pone costantemente nella Vita, nel Bene, nell’Amore; perché si riveli la sua
potenza nelle nostre debolezze.
In questo senso comunità e famiglia sono luogo privilegiato di crescita verso l’amore e fondamento di ogni azione
pastorale. A
condizione che noi cerchiamo di vivere un’autentica vita teologale e possediamo uno sguardo contemplativo in grado di
vedere Dio costantemente all’opera nella nostra vita. Dio è presente in tutto,
anche se non lo si vede, ma per rendersi visibile deve passare attraverso la
nostra accoglienza. Infatti, per agire nel mondo creato Dio
ha scelto di incarnarsi: prima nella Parola, e
poi nel Verbo fatto uomo. Ora chiede di incarnarsi nella storia di
ciascuno di noi. La nostra scelta di vita è offrirsi a Dio con tutto
noi stessi per essere spazio
della sua azione nel mondo, oggi, e ci impegna sul cantiere
della storia. In questo senso realizziamo quel «complemento reale dell’immolazione di Cristo» (Statuti, 10), che non aggiunge niente all’offerta di Cristo, ma la
attualizza nella nostra vita, permettendo a noi di vivere quell’unione al Cuore
di Gesù che ci fa “rimanere in Lui”
(cfr. Gv 15), essere una cosa sola
con Lui. Così si vive la conversione alla libertà di amare come Dio
ama...
2. Per una
comunione viva
La vocazione consacrata si nutre della comunione con Dio e
con i fratelli/sorelle. Cosa
dire di più specifico a questo proposito? A quali atteggiamenti sollecitano
i vostri Statuti per crescere nella sua
realizzazione? Condivido con voi alcune brevi riflessioni in
progressione, che ritengo importanti per vivere realisticamente di una
spiritualità di comunione.
Ciò che è riferito alla comunità è valido – con le necessarie distinzioni –
anche per la famiglia.
a. Una visione dinamica della vita.
La vita è in sé stessa relazione, così come l’amore dice
relazione.
Le scienze umane, con la visione dinamico-evolutiva che le
caratterizza, ci informano che la persona è relazione e si struttura
attraverso i rapporti. L’uomo, cioè, non è già sé stesso in modo
chiaro e definitivo al momento della nascita, ma lo diventa attraverso una fitta rete di relazioni che lo costituiscono
nella sua identità, permettendo così anche
l’espressione della sua interiorità. Ciascuno di noi cresce e diventa individuo in forza di comunità vitali (società, famiglia, scuola, gruppi, comunità...) e dei rapporti che in esse stabilisce.
Proprio la qualità dell’inserimento nel nostro tessuto comunitario esprime
quanto anche noi siamo vitali, cioè capaci di generare vita e alimentare altre
comunità.
b. In comunità per divenire noi stessi.
La comunità ha questo scopo
fondamentale: la piena
maturazione delle persone. San Paolo esprimeva questa realtà quando
scriveva che la sua paternità aveva come scopo che i fratelli potessero
crescere « finché Cristo sia formato in voi » (Gal 4,19); e altrettanto quando
spiegava che i diversi doni di grazia da loro ricevuti dovevano condurli alla «
piena maturità di Cristo
» (Ef 4,13).
Questi riferimenti paolini non sono casuali: ci dicono che la nostra vera identità consiste nel
giungere a essere figli come “il” figlio Gesù, a immagine del
quale noi siamo stati creati (cfr. Ef
1,3-14).
La comunità, quindi, è per la crescita delle
persone, le quali giungono alla verità e pienezza di sé aprendosi
progressivamente e continuamente alla novità del vangelo e del Regno. Essa
vuole essere luogo privilegiato affinché ciascuno possa giungere alla sua piena
identità di figli di Dio, dando un volto unico ed originale al
desiderio/vocazione al bene che porta iscritto dentro di sé.
Per questo la comunità religiosa – diceva s. Tommaso – è
una scuola di
carità perfetta. È una scuola dove nella relazione con i fratelli si
impara a voler bene, a volere il Bene a ogni costo e per tutti. Ciò richiede di
saper riconoscere il Bene presente nella propria storia e in quella dei
fratelli; saper interiorizzare il Bene che è Dio-Amore e lasciare che si
esprima attraverso i nostri gesti, le nostre parole, i nostri silenzi, ecc...
M. GRAZIA VIRDIS, Ut unum sint
c. Scegliere la propria comunità.
Quando entriamo in comunità troviamo
un ambiente e persone che hanno una storia, una tradizione e stili già
collaudati. Educarsi alla comunione e vivere la fraternità – o, come è scritto
nei vostri statuti, « farci comunione
» – comincia con la scelta consapevole di
accettare la storia e la tradizione di una comunità che ci accoglie
e che noi accogliamo.
È il grande tema del senso di appartenenza alla comunità
e al carisma dell’Istituto. Accettare non significa lasciare tutto com’è, ma
arricchire la comunità con il contributo della propria unicità, della propria
diversità anche etnica e culturale e stimolarla a crescere in forza delle
energie presenti in essa. L’arricchimento personale di ognuno risulta tale
quando non è imposizione della propria
sensibilità o dei propri modi di vedere la comunità, ma quando è offerta che si rivela fermento capace di far lievitare la
comunione della comunità. Per questo è indispensabile l’accoglienza della
comunità e delle persone, con tutte le loro qualità e con tutti i loro limiti.
Se noi accettiamo solo le cose belle, le caratteristiche
positive di una comunità, ciò che si accorda immediatamente con il nostro modo
di essere o di pensare, costruiamo rapporti falsi. Non esistono persone,
culture, tanto meno comunità, che abbiano solo pregi e nessun difetto; tutto e
tutti, in quanto creature, hanno pregi e limiti/difetti. Se vogliamo costruire
il Regno – e quindi evangelizzazione, fraternità, unità e comunione – bisogna
fare i conti con entrambi.
Penso sia questa uno dei motivi delle nostre difficoltà a
vivere insieme: viviamo ancora prigionieri di meccanismi ingenui di idealizzazione e di individualismo.
d. Gli ideali sono vissuti nella storia.
Tutti noi, sia che viviamo in
comunità o in famiglia, siamo animati da grandi ideali. Ma siamo chiamati a fare i conti con la storia e con la
dinamica evolutiva che la caratterizza. Essa ci insegna che solo
progressivamente, nel divenire della vita, possiamo dare
un’espressione visibile e credibile ai valori e agli ideali. E questo richiede
che ci accogliamo senza riserve e senza pregiudizi, ci aiutiamo con delicatezza
e grande rispetto se vogliamo rispondere alla nostra vocazione.
Vivere le fatiche dell’accoglienza
reciproca, dell’andare incontro all’altro con discrezione, del coraggio della
correzione fraterna data e ricevuta, della consapevolezza che la nostra
crescita passa attraverso l’altro..., è la condizione che ci dispone a essere
attenti, recettivi, capaci di rispondere alle provocazioni della vita che
incontriamo anche nell’apostolato. Non dobbiamo desiderare convivenze in cui
non ci siano problemi, ma comunità/famiglie in cui le diversità, e le tensioni
che ne derivano, sono affrontate in modo evangelico, con simpatia, umorismo,
disarmo, amore.
Non possiamo vivere bene a compartimenti stagni. Quando noi
viviamo le relazioni in un certo modo in comunità/famiglia e in un modo diverso
fuori, stiamo strumentalizzando gli altri per un nostro benessere; non abbiamo
ancora compreso il dono della relazione con l’altro, che cosa significhi vivere
in comunità, e come l’unità e la comunione tra noi sia la prima testimonianza
da rendere: vi riconosceranno da come vi
amerete (cfr. Gv 13,35).
e. Tensioni, conflitti, crisi: che senso hanno?
Il cammino che porta alla comunione
e all’unità è accidentato, lo sappiamo bene. Difficoltà, tensioni (anche prolungate), momenti di crisi sono passaggi obbligati.
Per fare spazio alla fraternità è necessario rivalutare questi momenti,
cogliere la loro valenza positiva proprio in ordine al valore della comunione. La comunione ha senso proprio perché siamo
diversi: la nostra diversità riconosciuta, accolta e valorizzata
rivela la bellezza del piano di Dio, che vede ogni realtà creata ordinata
all’Uno.
Di solito percepiamo ogni
difficoltà/conflitto/tensione che interferisce con i nostri programmi come una
minaccia. Presi dalla paura di non sapere che cosa fare, o di perdere il
controllo della situazione, siamo portati istintivamente a scongiurare ogni
eventualità di crisi. In questo modo anziché essere profeti di quella comunione
e unità che sarà destino futuro dell’uomo, ci mostriamo custodi di un museo
archeologico: quello delle nostre paure e rigidità infantili, che non
accettiamo di mettere in questione.
Le scienze in generale ci insegnano
che le crisi sono
il segno di un processo di divenire in atto, hanno un ruolo positivo nel
processo evolutivo, ci fanno crescere. In un organismo vivente le crisi sono normali. L’eccezione è la
condizione di equilibrio, l’assenza di tensioni, i passaggi indolori. Siamo
diversi per età, cultura e famiglia d’origine, estrazione sociale, educazione
ricevuta, sensibilità, intelligenza, esperienze vissute, preparazione
culturale...: come potrebbero non esserci difficoltà e fatiche al confronto e
alla collaborazione? È proprio il
confronto e la condivisione delle singole originalità che stimola alla
conversione e rende possibile la comunione. Anziché essere una penalizzazione,
allora, tutti questi elementi di diversità ci aiutano a scoprire la nostra
identità e il nostro futuro come singoli e come comunità, e ci richiamano a un
atteggiamento di discernimento permanente.
Invece di inasprire le differenze individuali e la
competizione, dovremmo rivalutare l’ascolto, il silenzio, la pazienza,
l’accoglienza, la valorizzazione dell’altro...!
f. L’identità sta davanti a noi, nel futuro.
Quando noi parliamo di identità la
tentazione è quella di guardare istintivamente indietro - la
nostra storia passata, gli eventi salienti della nostra esperienza di vita, i
nostri tratti caratteristici, ecc. -
in modo statico e implicitamente “conservatore”. E facciamo così anche
per la nostra identità di istituto consacrato, pensando che la fedeltà al
carisma dipenda da quanto è già stato detto e fatto dal fondatore, o da chi è
venuto prima di noi. Pensiamo, insomma, che la nostra identità è qualcosa da conservare piuttosto che da cercare
e costruire.
La
storia attuale, con tutta la sua complessità, ci dice che la fedeltà più impegnativa riguarda il futuro.
Il passato e la tradizione non sono il riferimento assoluto, e il
cammino della nostra vita non è tutto predeterminato e definibile a priori.
Anche la vita consacrata segue i sentieri dell’umanità, dove tutto è in
evoluzione.
Gli ideali e valori che guidano un
istituto di persone consacrate sono sempre formulati e vissuti in modo
provvisorio e parziale. Fedele al carisma, infatti, è chi ne permette e
facilita un’espressione adeguata all’oggi: i suoi gesti esprimono
un’adesione e una tensione sincera ai valori della tradizione in cui si è
inserito, ma che con le sue scelte cerca di sviluppare.
L’importante è aver chiaro qual è il
progetto
che ci tiene insieme. È la chiarezza sul progetto che crea le basi per l’unità
e la comunione e la testimonianza della comunità. Di per sé la comunione non è
lo scopo ultimo della nostra vita religiosa. Lo scopo è e rimane sempre conoscere Dio, dimorare in Lui, giungere
alla piena maturità di Cristo e godere della Vita in pienezza
(cfr. Gv 13,15.17); la ricerca di unità e comunione è l’atteggiamento
che ci consente di rimanere sempre aperti ad accogliere e vivere questo dono.
E noi, abbiamo chiarezza sul
progetto da realizzare?
g. Siamo un cantiere sempre in costruzione.
Ho trovato molto bella una definizione della comunità vista
come « il luogo dei
passaggi verso l’amore » (J. Vanier). È vero! Fare comunione – in
famiglia come in comunità – comporta passaggi decisivi per il proprio divenire
persone e credenti adulti. Il passaggio dall’egoismo all’amore, dalla paura
alla fiducia, dal litigio all’unità, dalla menzogna alla verità, dalle teorie,
dai sogni e dall’idealismo alla realtà, dalla vanagloria alla gloria di Dio...
M. GRAZIA VIRDIS, Frutto in maturazione
Vivere insieme chiede di essere sempre disponibili al cambiamento, e cichiama
a vivere in un atteggiamento di continuo distacco
da noi stessi e dalle cose, dagli affetti e dalle persone. Sembra un paradosso:
per crescere e far crescere la sorella/il fratello nell’unità e nella comunione
è necessario saper vivere il distacco, da intendere non come
negazione della dimensione affettiva ma come attenzione a non dare a nulla e a nessuno il posto di Dio.
h. Crescere è fare spazio alla Vita.
Secondo una visione
dinamico-evolutiva, che è poi evangelica, ciascuno di noi nasce incompiuto e
vive la propria storia camminando verso il suo compimento. E per giungere al nostro compimento abbiamo
accolto la chiamata alla vita consacrata, nella comunità o in famiglia.
Esse sono un aiuto, ma entrambe comportano molte fatiche.
Il tempo trascorso fino a oggi in famiglia e in comunità
penso ci abbia insegnato che i nostri cambiamenti non sono avvenuti per un
volontaristico programma personale steso a tavolino, ma perché abbiamo dato spazio a nuove provocazioni
della vita, a nuove situazioni: abbiamo permesso agli altri di
spostare qualcosa dentro di noi, di modificare qualcosa di cui, forse, fino ad
allora andavamo sicuri e orgogliosi.
Noi cerchiamo la comunione perché crediamo che
la Vita giunge a noi sempre attraverso gli altri: se da una parte
richiede un
atteggiamento di accoglienza e di apertura fiduciosa, dall’altra
comporta che noi accettiamo la
nostra insicurezza.
In altre parole, noi sappiamo entrare in comunione quando
diventiamo vulnerabili, quando lasciamo cadere
le nostre maschere e ci mostriamo così come siamo; quando ci lasciamo
conoscere, apriamo la nostra porta, e non viviamo l’altro come un intruso, ma
come una visita della grazia che vuol portarci vita. Non possiamo sapere in
anticipo cosa ci chiederà e cosa ci porterà a cambiare dentro di noi. Crediamo
però che certamente Dio vuole condurci sempre più in profondità alla verità di
noi stessi, e infine -
lo speriamo -
alla Verità tutta intera. Possiamo accettare la nostra insicurezza e debolezza
quando con fede abbiamo posto la nostra certezza nel Risorto, e speriamo nella
potenza generatrice di vita della sua presenza in comunità.
Ci vuole coraggio per vivere tutto questo!
Perché non esisto solo io con le mie sicurezze personali. Esistono anche gli
altri attorno a me, e mi lanciano continui stimoli che mi mettono in questione.
Se li so accogliere posso crescere e scoprire la ricchezza mia e dell’altro in
ordine al compimento della nostra identità di figli di Dio: giungere alla libertà di amare come ama Dio. Se invece temo la mia
insicurezza mi irrigidisco sulle mie posizioni, non accetto le provocazioni che
mi portano nuova vita, e non mi trovo bene con gli altri.
Ci vuole fiducia per vivere così il
rapporto fraterno in comunità/famiglia. Dare fiducia è il senso profondo dell’amore.
Dio si fida dell’uomo in modo totale. Egli ha messo nelle nostre mani il
mondo, il Figlio, la Chiesa, tutto... crede nella nostra capacità di portare
frutto e, senza scandalizzarsi delle nostre imperfezioni e infedeltà, ci invita
a fare altrettanto con i nostri fratelli.
Se proviamo seriamente a vivere
questa fiducia, la nostra ricerca di comunione ci vedrà servitori del Bene che è presente nella
sorella/nel fratello, forti della “speranza attiva” che ci porta a
giocare tutto su ciò che l’altro ancora non è ma potrebbe divenire con l’aiuto
del nostro sostegno fraterno.
i. Chiamati perché peccatori, uniti perché salvati.
E infine viene da chiedersi: perché mai Dio ha affidato a
creature deboli come noi il Sint unum, il buon messaggio della
unità e della comunione trinitaria? Cosa possiamo fare di fronte al nostro
limite, alle nostre paure e debolezze così evidenti?
E se stesse proprio qui la sfida e
la testimonianza della vita consacrata? Una vita
insieme, camminando ogni giorno alla ricerca dell’unità e della comunione, senza scandalizzarci delle debolezze e delle
povertà nostre e degli altri. Dio ci ha chiamati così come siamo...
e Lui sa bene cosa ci chiede, perché non vede solo i nostri difetti ma anche i
nostri talenti.
Nessuno è perfetto! Non lo erano i primi
discepoli, e non lo siamo neppure noi. Con tutto il fardello della nostra debole
umanità noi siamo chiamati a rendere visibile l’onnipotenza della Grazia di Dio
nelle nostre fragilità e la sua sovrabbondanza proprio lì dove abbonda il
nostro peccato (cfr. Rom 5,20). Mi sembra che sia questo il
messaggio che papa Francesco ci sta mandando con forza e perseveranza
dall’inizio del suo pontificato.
Se crediamo nella buona notizia dell’amore
di Dio e vogliamo viverla, nelle nostre case si dovrebbe vedere che nessuno si
scandalizza se le cose non vanno sempre bene, se i programmi non riescono, se i
fallimenti bussano alla nostra porta, se non ci sono i risultati previsti...
perché crediamo che la Grazia sovrabbonderà anche lì dove noi leggiamo i segni
del fallimento. La Grazia ci trasformerà se ci rendiamo disarmati e disponibili
alla conversione, se non usiamo le nostre debolezze come giustificazioni, ma
continuiamo a cercare anzitutto il Regno di Dio e la sua giustizia.
Allora la nostra vita diventa segno. Segno
del Risorto che dà continuamente la vita a chi si rende disponibile ad
accoglierla. L’accoglienza della sua volontà di comunione diventa in noi
decisione di prestare a Dio le nostre mani, le labbra, il cuore... perché il
suo amore trovi spazio nella nostra storia di uomini.
Smettiamola di guardarci con occhi
di giudizio, di tormentarci – spesso solo a parole – con i sensi di colpa per
le nostre incoerenze come consacrati.
Sarebbe molto più produttivo,
proprio a livello di testimonianza, riconoscerci peccatori senza fare dei drammi, e
accogliere la salvezza di Cristo ogni volta che ci troviamo vuoti e sconfitti
per le nostre infedeltà e per le nostre resistenze. Chi sa mettersi
in questione fa circolare lo Spirito e cammina con i suoi fratelli, libero di
esprimere in forme sempre nuove la sua comunione con il cuore di Cristo, in un
atteggiamento di conversione
permanente.
La gente che ci guarda, allora, non avrà più paura di Dio se potrà vedere noi
che, ogni volta che ci troviamo a terra, ci rialziamo prontamente con il
sorriso di chi sa di essere amato e salvato, e può riconoscere questa salvezza
nel gesto accogliente e riconciliante della sorella/del fratello.
M. GRAZIA VIRDIS, Cuore di luce
P. Enzo Brena scj
Domande per la riflessione/condivisione
· Quali ostacoli/resistenze sperimentiamo più
frequentemente nello stabilire tra noi relazioni di comunione?
· Se è vero che siamo sempre in crescita, che cosa
concretamente ci frena/ci impedisce di accogliere gli stimoli quotidiani alla
nostra conversione/crescita?
· Il più grande ostacolo alla libertà, alla comunione e
alla gioia di vivere siamo noi stessi!
Che cosa mi sono proposto personalmente per stare in un cammino di libertà
evangelica? Che cosa suggerisco e propongo alla comunità?
· Un grande ostacolo all’amore-comunione è il legalismo,
per il quale contano più le regole (e le abitudini personali!) che il Vangelo!
Che cosa stiamo facendo e come ci stiamo aiutando su
questo punto? Quanto la nostra via è vissuta con il cuore aperto?
· Come percepisco il mio limite personale? Quanto vigilo
sul pericolo di una vita vissuta in modo “pelagiano” o “gnostico”? Quanto credo
nella grazia e nella salvezza gratuita di Dio? e quanto la vivo nei confronti
degli altri?