La consacrazione è una pienezza
Teresa Giordani è entrata nella CM quando aveva 36 anni, nel 1957, anno della nascita del nostro Istituto. Era già insegnante di scuola elementare. Ha fatto la sua consacrazione a Dio nella CM quattro anni dopo, nel 1961. A proposito della sua consacrazione ho sentito raccontare una storia che ho sempre custodito nello scrigno della mia memoria come qualcosa di prezioso e di significativo. Torniamo alla scuola: alcuni giorni dopo la cerimonia della consacrazione, con l’anello al dito, una delle sue piccole scolare, senza dire niente, le ha preso la mano e l’ha baciata. Teresa raccontava sempre questo fatto emozionata. Quale intuizione ha avuto quella bambina per riuscire a captare il mistero che era avvenuto nella vita della giovane donna, sua maestra?
Sono tornata parecchie volte a questo fatto quando cercavo di capire che cos’era la nostra consacrazione, che cosa significava in se stessa e come poteva irradiare, al di qua o al di là del nostro operare. E mi vengono al pensiero alcune parole di Paolo VI (26/9/70) quando dice: «La consacrazione vostra non sarà soltanto un impegno, sarà un aiuto, sarà un sostegno, sarà un amore, sarà una beatitudine, a cui potrete sempre ricorrere; una pienezza, che compenserà ogni rinuncia e che vi abiliterà a quel meraviglioso paradosso della carità: dare, dare agli altri, dare al prossimo per avere in Cristo».Questa nostra consacrazione che, lo sappiamo, si radica nella consacrazione battesimale, ne radicalizza gli impegni e la esprime più perfettamente (cfr. P.C. n. 5), ha una sua consistenza propria, ha un valore in sé stessa, ci segna ontologicamente. È l’ intima e segreta struttura portante del nostro essere e del nostro agire. È la nostra ricchezza profonda e nascosta, che le persone in mezzo alle quali viviamo non sanno spiegare e spesso non possono neppure sospettare (cfr. Paolo VI, 20/)/72). È, davvero, un amore, una beatitudine, una pienezza.
La consapevolezza della consacrazione, così capita e vissuta, è una delle eredità che io custodisco di Teresa (così come, ad esempio, di Antonietta Biavati). Qualcosa di profondamente spirituale ma non evanescente, qualcosa che si toccava come la più solida delle realtà.
Quando ci lamentiamo che oggi la consacrazione in sé stessa non è più percepita come un valore, parliamo degli altri o di noi stesse? Crediamo che la nostra è «una forma di consacrazione nuova e originale», frutto della creatività dello Spirito Santo che ci ha seminato nei solchi della storia e nella discreta trama del tempo? O la lasciamo appassire e scolorire prima che dia i frutti che doveva dare? O passiamo immediatamente al tempo operativo del fare o delle faccende, senza il tempo ontologico dell’essere che è spazio interiore, regno personale, tesoro dove si custodiscono le possibilità nascoste e imprevedibili di ciascuno/a di noi, il suo regno segreto? E senza approdare al tempo contemplativo che non è evasione ma spazio per vivere il dialogo di amore col Dio che rimane per noi un mistero vitale (cfr. St. n. 64) e che ci porta a scoprire l’amore stesso di Dio operante nella storia e a fare nostre le inquietudini dei nostri compagni/e di viaggio e la loro sete di speranza e di salvezza (cfr. St. n. 65), che altro non è che sete di VITA, di vita eterna, una vita in cui niente si perde e a niente si rinuncia, ma tutto si ricupera nella luce di Dio?
La capacità di iniziare cose nuove
Nel 1981, quando ha iniziato la sua nuova esperienza di lavoro – insegnare in uno degli Ospedali di Bologna – Teresa aveva 60 anni. Non era più la giovane consacrata di un tempo ma, nonostante la sua apparenza tranquilla, per niente irrequieta, non aveva perso la sua capacità di sognare e di iniziare cose nuove. Conservava quella agilità che scaturiva della sua coscienza di donna consacrata; consacrata proprio per una missione di «amore e di servizio nella Chiesa e nel mondo» (St. n.12), una missione le cui concretizzazioni bisognava continuare a cercare e a discernere, dato che il tempo era di cambiamenti, di grandi cambiamenti.
Davanti a vite semplici, segnate soprattutto dalla quotidianità, come è stata quella di Teresa, tutto sembra normale, ovvio, previsto. Ma, in realtà, non è proprio così, come possiamo notare, per contrasto, davanti alle resistenze di tante persone (anche tra di noi) a un cambiamento di gruppo, a un nuovo lavoro, ad una iniziativa che ci porti a un ambiente diverso da quello che frequentiamo abitualmente. C’è bisogno di essere scolpite da una serie di virtù che ci rendono agili e che fanno nascere atteggiamenti di pronta risposta a quello che la vita suggerisce e Dio ci chiede.
Un’ anziana forte e serena
Avere visto invecchiare Teresa, lo considero un regalo che Dio mi ha fatto. L’ho vista pian piano diventare meno agile nel suo corpo, ridurre i suoi movimenti, ma mai cadere in lamentele. Quando le chiedevo come stava, lei diceva la verità: aveva dei dolori, dolori forti. Ho intuito, più di una volta, che per non lasciare sua sorella Maria, si privava di alcune terapie che potevano alleviarla. Ma predominava sempre in lei l’accettazione serena e umoristica (che è già stata ricordata da altre missionarie).
Il nostro RdV dice ad un certo punto così: «Vivremo la malattia, l’anzianità ed ogni altra situazione di disagio con senso di fortezza, di non pretesa e come offerta oblativa per la redenzione del mondo». Mi ricordo che quando abbiamo scritto e approvato il RdV, alcune di noi consideravano queste parole molto dure, anche se le dobbiamo leggere in contrappunto con altre espressioni e esigenze che raccomandano la delicatezza, la comunione attiva e la carità con le missionarie ammalate o anziane (cfr. St. e RdV n. 76). È stato così che Tersa ha vissuto i grandi cambiamenti dei suoi ultimi anni: lasciare la sua casa e andare con sua sorella in una casa di riposo; lasciare questa (che doveva essere ristrutturata) e cercarne un’altra. E il successivo stadio con la catena di malattia e di fragilità che è seguita. Nessun vittimismo, nessuna amarezza; a volte la trepidazione di un essere fragile davanti alle convulsioni della vita (penso al momento delicato che è stato la ricerca della seconda casa di riposo). Ma fino alla fine ha prevalso il suo sguardo decentrato da sé e posato su gli altri, attento e fiducioso su tutta la nostra Famiglia CM.
Nonostante l’ambiente pesante che caratterizza tutte le Case di riposo, quando andavo a vistarla, tornavo a casa sempre con dentro una gran leggerezza, grata per l’esempio di questa missionaria della prima ora, che non viveva la sterile nostalgia di chi guarda indietro e si pone a fare una «lamentazione su un tempo passato, su una qualche gloriosa età dell’oro», cosa che come dice l’arcivescovo di Westminster (cfr. Regno 7/2009), «non è un canto cristiano». «Non è il canto della fede, ma della disperazione, perché la nostra fede ci offre la visione non di ciò che è stato, ma di ciò che sarà» (Ibid). Proprio per questo, come raccontava Santina nell’articolo scritto su “Vinculum” di ottobre 2010, Teresa poteva consegnare il suo lavoro incompiuto e, con fiducia nel Signore che viene dal Futuro e nelle missionarie di oggi, dire:«Adesso, andate avanti voi…».
Per finire, soltanto un rapido accenno alla capacità di Teresa d’intessere delle relazioni. Il parroco lo ha ricordato nella messa del funerale quando ha detto che la Messa delle 8.00, alla domenica, era la più bella, già che contava con l’animazione di un gruppo di circa 30 persone, animate da Teresa. Relazioni semplici, ma che duravano nel tempo tanto che alla Messa del funerale si trovava la madre di un suo scolaro! Relazioni che Tersa ha continuato a tessere fino alla fine. Terminata la Messa del funerale una signora, piangendo, si è avvicinata ad Anna Maria e le ha chiesto il testo che lei aveva letto salutando Teresa. E le ha detto: «Io lavoro a “Villa Emma” e la relazione che ho stabilito con Teresa è stata profonda e molto importante per la mia vita». Da notare che il tempo che Teresa ha vissuto in quella Casa è stato meno di due anni!
Grazie, Teresa! Aiutami e aiutaci a seguire le orme dei tuoi passi: a vivere con fortezza, con dolcezza, con giovialità tutte le età della nostra vita, anche la terza e la quarta, con tutto quello che le dovrà caratterizzare. E aiutaci ad essere sempre sentinelle nel territorio dove viviamo per leggere i segni dei tempi e fare crescere le sementi del Regno, con la consapevolezza che oggi uno di questi segni è proprio l’appello della relazionalità; l’appello a costruire reti di relazioni semplici, concrete, vitali, esistenziali. Non sarà questo un appello che si coniuga bene con la spiritualità di comunione che ci caratterizza o ci dovrebbe caratterizzare? Reti di comunione che impediscano l’isolamento (di noi stesse e degli altri), sapendo che i sogni buoni possono nascere soltanto in un contesto di solidarietà e di comunione.