Studiamo il contenuto del secondo termine della nostra
denominazione: Compagnia Missionaria.
Etimologicamente
la parola è derivata dal verbo latino:
“mittere”= “mandare” e precisamente dal participio passato: “missus” =
“mandato”. Nella Scrittura questo verbo è usato spessissimo in tutta la sua
coniugazione per significare una finalità ben precisa: l’investitura da parte di Dio di una missione di salvezza.
Così, ad
esempio, in Genesi (45,5) Giuseppe dice ai fratelli: “Iddio mi mandò avanti a voi in Egitto per il vostro bene”.
Mosè, in nome
di Dio, si presenta al Faraone per dichiarargli: “Jahve Dio degli Ebrei, mi ha mandato da te per dirti: lascia partire
il mio popolo affinché mi renda un culto nel deserto” (Es 7,16)…
Anche Gesù si
dice mandato dal Padre come dono d’amore
“affinché
ognuno che crede
non
perisca, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16).
La presenza
della volontà salvifica di Dio deve durare senza sosta sul cammino degli
uomini. Per questo Gesù risorto trasmette la consegna della sua missione agli
apostoli: “Come il Padre ha mandato me, così io mando voi”(Gv
20,21). “Andate e istruite tutte le
genti, battezzandole nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”(Mt
28,19).
L’investitura
da parte di Dio importa l’accompagnarsi
della sua onnipotenza contro tutte le resistenze e tutte le difficoltà.
“Prima che ti formarsi nell’utero ti ho conosciuto,
prima che tu uscissi dal seno ti ho santificato: ti ho stabilito profeta per le
nazioni” (Ger 1,5).
“Tu poi, cingiti i fianchi, levati e di loro quanto ti
ordinerò: altrimenti ti farò temere la loro faccia. Ecco io ti pongo, oggi,
come città fortificata, come un muro di bronzo contro tutto il paese, contro i
re di Giuda e i suoi capi, contro i suoi sacerdoti e il popolo della terra. Ti
faranno guerra, ma non ti sopraffaranno perché io sono con te per salvarti” (Ger 1,17-19)
Le pagine della
Scrittura sono indistintamente segnate da questa certezza e testimoniano la
“strana” azione di Dio.
Nella prima
lettera ai Corinti, l’apostolo Paolo ha tentato di descriverla così:
“Ciò che è stolto per il mondo, Dio lo sceglie per
confondere quello che è forte….affinché nessuna creatura possa vantarsi davanti
a lui” (1Cor 1,27-29)…
Noi e il dono di Dio
1. La chiamata di Dio alla fede è certamente per tutti gli uomini, ma alla
perfezione della fede in una integrale imitazione di Cristo e ad una esplicita
missione di apostolato, è solo per alcuni.
Noi dobbiamo raggiungere la morale certezza di essere fra questi. Come?
Forse un indice particolarmente rivelatore è il senso di Dio che lentamente ci invade.
E’ la forza del cuore che
trascina di prepotenza tutte le facoltà verso colui che sta diventando il
grande amore e il grande interesse della nostra vita:
“Proseguo la
mia corsa, scriveva San Paolo ai Filippesi, per vedere di afferrare Cristo Gesù perché anch’io sono stato
afferrato da Lui”.
Uno scambio di attenzione. Se la nostra non riesce a diventare
preponderante per Dio, arrischieremo di fare un passo che forse non era nei
suoi disegni o che, comunque, svuota la sua scelta di quella stabile serenità
che egli voleva donarci per farci testimoni della sua vita e della sua gioia in
mezzo ai fratelli.
La volontà dunque di conquistarci brano per brano a Dio, in un lavoro
paziente, sofferto, ma tenace e soprattutto soddisfatto perché è prova d’amore,
è ricambio d’interesse, perché è dono di noi stessi a lui, immedesimazione
della nostra vita con la sua vita….è un buon criterio per affermare che egli ci
ha scelti e portati tra le file della Compagnia Missionaria.
2. La vocazione di Dio è sempre per un dono di salvezza che egli vuol porgere
agli uomini per mezzo nostro. “Come posso essere nel mio ambiente una luce che
elevi dalle bassezze della quotidiana oscurità, luce che riscalda, illumina e
vivifica? Solo se io spesso sto nel cerchio luminoso di Dio. “Il Cristo mi deve
illuminare: allora potrò irradiare diffusamente ed efficacemente la sua luce”
(B.Naegele). Il filtrare quotidianamente tutto noi stessi: pensieri,
sentimenti, parole, atteggiamenti, attività attraverso il Vangelo, perché tutto
sappia di Cristo, perché tutto ripeta, quanto meglio è possibile, l’esempio di
Cristo, non è solo un lavoro necessario per rendere certa la nostra vocazione
“radicandola nell’amore” ma è anche una questione di….onestà professionale.
“Investiti di questo ministero,...
ripudiamo i sotterfugi dettati dalla
vergogna e, invece di comportarci con astuzia e di falsare la parola di Dio, ci
affidiamo al giudizio coscienzioso di ogni uomo con la chiara manifestazione
della verità al cospetto di Dio….Poiché noi non predichiamo noi stessi, ma Gesù
Cristo” (2Cor 4,1-5).
Sembra legittimo concludere che, per essere degni del mandato di Dio, noi
dobbiamo tendere ad essere sacramento di Cristo, come Cristo fu sacramento del
Padre.
Con il termine “sacramento” intendiamo una realtà umana che ci accosta ed
immerge in una realtà soprannaturale. Questo fu certamente il compito
dell’umanità di Cristo rispetto alla divinità e all’amore del Padre. “Il Padre ed io siamo una cosa sola” (Gv
10,30). Ecco perché “chi vede me, vede anche il Padre mio”(Gv
14,9).
Possiamo ambire lo stesso traguardo nei confronti della santità e
dell’amore di Cristo?
Credo sia più esatto dire che “dobbiamo”perché “noi siamo gli operai di Cristo e gli amministratori dei misteri di Dio.
Ebbene dagli amministratori non si esige altro se non che siano fedeli”(1Cor
4,1-2).
3. Una parola anche sul contesto in cui Dio ha “calato” la nostra vocazione.
Senza dubbio diversi erano i compiti di una vocazione di Dio e re, a
profeta, a liberatore del suo popolo. Altrettanto, ai giorni nostri, di una
vocazione di Dio all’una o all’altra famiglia di consacrati. La nostra si attua
nella Compagnia Missionaria del Sacro Cuore.
Peccare di astrattismo è una tentazione facile, ma se seguita ci
condurrebbe alla insoddisfazione e alla sterilità.
Le linee, dunque, su cui noi dobbiamo erigerci a “segno” di Dio in mezzo ai
fratelli ed espletare il dono di grazia che egli ci ha affidato, sono quelle
che nello studio, nella pazienza, nell’obbedienza all’indirizzo di Dio e della
Chiesa sono maturate per la Compagnia Missionaria.
Porci decisamente nelle modalità di servizio che sono proprie della nostra
famiglia, amarne la fisionomia, rispettarne le tradizioni, donarci con
intelligenza e iniziativa alle sue attività, riscaldare gli ideali e le energie
al fuoco del suo spirito, significa vivere nella piena aderenza al piano di Dio
e nella soddisfazione di sentirci “realizzati”come lui ha pensato e scelto per
noi.
“Chi di voi, ha detto Gesù, se ha un servo ad
arare o al pascolo, al suo ritorno dalla campagna, gli dice: “Svelto, vieni a
metterti a tavola! Non gli dirà invece:”Preparami da mangiare, cingiti per
servirmi…poi mangerai e berrai anche tu?
Forse il
padrone ha degli obblighi con il servo perché ha eseguito gli ordini
ricevuti?
Così anche voi:
quando avrete fatto tutto ciò che vi è stato comandato, dite: siamo servi inutili. Abbiamo fatto
semplicemente quello che dovevamo fare” (Lc 17,7-10).
Servire con umiltà, dove e come
desidera Dio, è tutto il senso della sua chiamata.
Infatti “non siete stati voi che
avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho posto sul cammino perché andiate e
portiate frutto e il vostro frutto rimanga” (Gv 15,16).
Questa mattina,
celebrando la Santa Messa, sono stato particolarmente colpito dalle parole
della consacrazione:
“Prendete e mangiate tutti: questo è il mio
corpo offerto in sacrificio per voi”.
Ho pensato che
l’essere scelto da Dio era anche una domanda che egli ci faceva di seguire il
suo Figlio in tutti i passi del suo cammino, eventualmente anche fino al
calvario.
Dal giorno
infatti in cui Cristo ha compiuto il suo sacrificio, sembra diventata
ineluttabile la legge della sofferenza per il traguardo della redenzione.
Ho detto al
Signore di “si” per me e per voi. Sono stato indiscreto?
Spero di no,
perché per noi “chiamati”, il vivere “è
una moneta da spendere” per comperare la salvezza nostra e dei fratelli.
(Dagli scritti di P. Albino, Bologna, 2-2-1971)