vita quotidiana dei miei studenti
Ho raccontato altre volte un po’
di storia della nostra presenza a Maputo e di questa Nazione, dove anche noi
abbiamo avuto la nostra minuscola, quasi invisibile, parte, condividendo il
cammino del dopoguerra e costruendo per i
loro figli una scuola. Oggi apro
una finestra sul quotidiano dei miei studenti. Innanzitutto vi dico subito che le ragazze e i ragazzi, al primo
incontro, paiono somigliarsi, per cui non mi é stato facile nei primi tempi distinguere Magda da Ana, Anira da
Daimira, e tantomeno Nelson da Abdul, Sergio da Tomás e cosí via. Oggi li conosco tutti e ricordo anche i primi,
quelli del 1990, che oggi, dopo 24 anni,
ancora tornano a farsi vedere, a iscrivere i figli a scuola. Vengono a vedermi, a chiedere aiuto, a
raccontarsi. Io ci sono sempre, li ascolto e quando se ne tornano a casa una
parte di me è con loro.. Conosco nonne, cugini, genitori, i nuovi orfani che
vivono storie tristi, storie di ferite, le nuove famiglie... Sono tanti, mai troppi. Essi sono diventati i “figli” che amo
e seguo anche quando formano la loro nuova famiglia, quando nasce un
figlio, se si ammalano, se perdono il
lavoro, se vanno a vivere lontano, se prendono una brutta strada...
Le
loro famiglie di periferia.
Nella nostra scuola passiamo
insieme anni, gli anni dell’adolescenza, dei sogni, delle speranze. I ragazzi e le ragazze arrivano dopo le
primarie a 11/12 anni e vanno via a 16 anni, se sono studiosi, a 18/20 anni se
hanno avuto problemi. Essi provengono da
famiglie con un basso livello di formazione, che peró stanno migliorando il
tenore di vita con la tenacia e il lavoro. Alcuni genitori hanno perfino ripreso a studiare sia per avere piú opportunitá di
lavoro, che per aiutare i figli a scuola. La mamma di Meríta, Esthér, sta frequentando la 7°, Meríta é in 6ª e gli altri fratellini, 3 maschietti, sono in
1ª, 2ª e 3ª elementare. A casa c’é la presenza rassicurante di nonna
Marta. Il papá di Felizberto,
Cesár, che aveva frequentato da noi fino alla 10ª classe - ricordo la sua
passione per lo studio -, quest’anno é riuscito ad iscriversi alla 11ª classe
grazie alla collaborazione di sua moglie Catarina e della Tia Agostinha. In due
anni potrebbe accedere all’Universitá. Voleva fare ingegneria meccanica, ma
potrebbe anche fare informatica. Di notte lavora, fa il “guarda” , il guardiano
di un albergo di Maputo.
I
ragazzi e le ragazze piú poveri, tipo Antonio, Vánia, Vanessa, Adérito e altri
che non sto a nominare, sono spesso
anche quelli che rendono poco e male a scuola. I loro genitori sono fuori casa per lavoro dal mattino presto a sera tardi, prendono poco, non
hanno mai tempo per i figli e non
sempre c’é una nonna di supporto. Questi
ragazzi che vivono nella lontana periferia, sono molto sacrificati: si alzano alle 4 del mattino per uscire di
casa alle 5. Devono prendere il primo chapa delle 5 e mezza per essere a scuola puntuali. Si
inizia alle 7. Antonio ad esempio non ha l’acqua in casa e il suo primo lavoro
é di fare rifornimento al mattino appena sveglio. Pure Vánia aiuta fin
dall’alba, andando a raccogliere la
legna per accendere il fuoco, scaldare l’acqua per la doccia per sé, mamma
e papá. Solo dopo escono a prendere il chapa, lei per andare a scuola in cittá,
i genitori per andare al lavoro. Non c’é l’abitudine di fare colazione, né di prendere con sé una
merenda. Quando arrivano a scuola sono assonnati fino verso le 8 e mezza,
quando squilla la campana di pausa e
comprano qualcosa da mangiare. Patrice, Samuel, Cristina, Melissa, Tiago e
Evander vengono da Matola, territorio molto vasto, dove le famiglie piú povere
hanno l’opportunitá di costruirsi una casetta un pezzo per volta. Da qualche
anno si stanno spostando lí tutte le piú grandi imprese e sta diventando la zona industriale di Maputo.
Con
tre chapa raggiungono Maputo
Per raggiungere la cittá, dove ci
sono i servizi, scuole, ospedali, uffici governativi, si usa il mezzo di trasporto “chapa”, il piú
economico, l’unico mezzo pubblico, un VW a 9 posti, che puó arrivare a 20 posti
a sedere, perché al suo interno vengono fissate delle panche. Qualcuno viaggia
anche in piedi, curvo, pur di entrare nel chapa e non dover aspettare il successivo, che non si sa se ci sará e a che
ora. Chi é piú mattiniero sale davanti,
accanto all’autista e divide quello spazio con un altro viaggiatore. É il posto
migliore. Si aspetta che ci siano tutti, si parte solo quando il chapa é pieno,
ma pieno davvero, con qualcuno seduto sulle ginocchia.
L’altro mezzo a disposizione del
popolo é un autocarro aperto dietro,
dove una trentina di persone stipate fitte e con il loro carico di merce da
vendere in cittá, viaggiano in piedi, aggrappati gli uni agli altri. Lo spazio
é quello, viene sfruttato al massimo e vi succede di tutto: chi viene derubato,
chi deve fare da “aggancio” al vicino che non sa dove tenersi per non cadere,
con disagio del sesso debole, che deve sopportare cose spiacevoli. Il percorso dura anche piú di un’ora a causa
dell’ingorgo del traffico, su un percorso che si potrebbe fare in metá tempo.
La strada sconnessa e piena di buche viene percorsa come una
gimcana per evitarle. Si sopportano scossoni e spinte soprattutto in curva o nei sorpassi. Arrivati a destinazione della tratta, c’é il
cambio di chapa e si riparte. A volte ci
vuole molto piú tempo, a coprire lo
stesso percorso, soprattutto quando c’é
molto traffico e si fanno code interminabili. Le vie che portano al centro
cittá sono poche. Dal Nord, dal Gurue, entrano in Maputo file di auto, camion carichi di lavoratori e di studenti, che partono alle 3 del
mattino da Quelimane per arrivare in
tempo in cittá e fare le loro commissioni. C’é un’unica arteria
supertrafficata, dove si immettono dalle vie interne chapa, camion, auto,
carretti spinti a mano, piccoli taxi, gente in bicicletta, che formano una
fiumana di mezzi e di persone. Ultimamente la gente ha avuto grossi problemi di
sicurezza sulla strada a causa della guida sconsiderata degli autisti dei
chapa. Essi vanno a velocitá elevata, non si curano di semafori, né di codice
della strada. Fanno dei sorpassi che ricordano piú le giostre dove ci
divertivamo da piccoli, che il senso di responsabilitá per le persone che
portano. Ti tagliano la strada, superano indifferentemente da sinistra o da
destra, si fermano improvvisamente per scaricare le persone e farne salire
altre senza un minimo di attenzione per chi sta dietro o di lato. É vero che le
buche nell’asfalto sono pericolose, ti possono far saltare l’asse, bucare le
ruote, far sbandare il mezzo che finisce addosso agli altri veicoli. Ma quelli
corrono, perché a fine giornata devono aver fatto un certo incasso per avere un
buon margine. La gente é scontenta, gli
incidenti causano anche morti, ma quale altra alternativa? Per questo tutti se
ne servono, altro mezzo pubblico non c’é.
Avevano provato a far girare dei mezzi piú grandi, con posti normali, piú comodi.
Il costo del servizio andava al di lá delle possibilitá della gente, per cui é
fallito il progetto.
Non parliamo poi di come si
viaggia quando piove! Basta un giorno intero, o una notte di pioggia e le
strade diventano impraticabili. L’acqua cresce, copre le strade, fa un unico
canale d’acqua e la terra rossa si fa poltiglia che si attacca alle ruote. La
gente é costretta ad uscire di casa con
i pantaloni arrotolati, le ciabatte di plastica ai piedi o scalzi, l’ombrello é
inutile e si portano il cambio per quando arriveranno al lavoro o a scuola.
Nelle viuzze tra le abitazioni l’acqua
copre tutto ed entra in casa. Ci sono buche e avvallamenti anche di mezzo
metro, provocati dallo spostamento della terra rossa sabbiosa che viene portata
via dalla pioggia. Nessun mezzo si arrischia a passare lá dentro. Se succede
che si impantana deve aspettare che venga il giorno buono per essere tirato
fuori. Il carro attrezzi? Non siamo in Italia, mi dicono gli amici. Qui é
cosí.