Compagnia Missionaria del Sacro Cuore
La COMPAGNIA MISSIONARIA DEL SACRO CUORE è un istituto secolare, che ha la sede centrale a Bologna, ma è diffusa in varie regioni d'Italia, in Portogallo, in Mozambico, in Guinea Bissau, in Cile, in Argentina, in Indonesia.
News
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09 / 08 / 2024
Agosto 2024
Edvige Terenghi, amministratrice centrale, visita i gruppi in Mozambico....
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09 / 08 / 2024
Agosto de 2024
Edvige Terenghi, administradora central, visita os grupos em Moçambique....
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09 / 08 / 2024
Agosto de 2024
Edvige Terenghi, administradora central, visita los grupos en Mozambique...
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09 / 08 / 2024
19 ottobre 2024
Assemblea italiana, in presenza, a Bologna, e in collegamento online...
elezione del nuovo consiglio centrale
In questo giorno in cui celebriamo la festa di S. Giacomo apostolo, abbiamo eletto la nuova Presidente della Compagnia Missionaria e il suo Consiglio.
Nelle relazioni dei gruppi e nel dialogo assembleare dei giorni scorsi, si è molto auspicato un Consiglio Centrale più rappresentativo del volto internazionale e multiculturale della nostra Famiglia. Lo Spirito Santo ci ha condotte su questa strada. Con grande gioia rendiamo grazie a Dio e alle missionarie che hanno accettato il servizio loro affidato.
Mudji, scrutatrice, raccoglie i biglietti delle elettrici
Spoglio delle schede da parte delle scrutatrici, Mudji e Andrea
Le prime due elette: la presidente Graciela, a sinistra, e la vicepresidente Serafina.
La consigliera Gabriela, che non è presente in assemblea, viene raggiunta al telefono e accetta l'elezione.
Il nuovo Consiglio: (da sinistra) Serafina Ribeiro, Marcellina Mudji, Graciela Magaldi, Gloria Neto
doni mozambicani
Domenica mattina 28 luglio 2019, prima che la Presidente presentasse le conclusioni dell'assemblea, le missionarie mozambicane hanno voluto offrire un dono a Martina, presidente che ha terminato il suo mandato, alla nuova presidente e al suo consiglio, alle delegate di ogni gruppo e ai segretari dell'assemblea.
Un momento di festa e di gratitudine gioiosa. (VEDI FOTOGALLERY)
celebrazione conclusiva ix assemblea
Domenica 28 luglio, P. Enzo Brena superiore della Provincia Dehoniana del Nord Italia, ha partecipato alle conclusioni assembleari e ha celebrato l'Eucaristia a chiusura della IX Assemblea Generale della Compagnia Missionaria.
Vedi PHOTOGALLERY
“il giovane non ha paura di fare della sua vita una buona avventura”
INTRODUZIONE
Convincersi, come lo
è papa Francesco, che i giovani non hanno paura di fare della propria vita una
buona avventura, è la premessa necessaria per avere il coraggio di parlare
della condizione giovanile e interrogarsi sul contributo che possiamo dare loro
attraverso il nostro essere consacrate, secolari, con uno specifico Carisma che
dà l’orientamento al nostro operare. In particolare, il vostro prossimo confronto
vi porterà a decidere con coraggio azioni per “vivere comunione e missione con
cuore accogliente e misericordioso” accanto anche ai giovani.
Siamo appena uscite da un lungo percorso di preparazione e di
attuazione del Sinodo dei giovani che è stato celebrato e si è concluso con
l’esortazione apostolica “Christus Vivit” che rilancia nuovi percorsi di
speranza per il mondo giovanile. Il Papa poi, attraverso i suoi discorsi alle
diverse realtà che incontra, continua a sollecitare tutto il popolo cristiano affinché
non venga spenta l’attenzione sui giovani. Infatti lo stesso titolo di questo
intervento è una frase pronunciata da Papa Francesco nell’ incontro ecumenico e
interreligioso con i giovani in Bulgaria e Macedonia del Nord (maggio 2019)
Questo mio
intervento terrà dunque conto dei vari documenti del Sinodo e di un
approfondimento che abbiamo fatto nel 2018 in collaborazione tra diversi membri
degli Istituti Secolari Italiani. Lo scopo di questo lavoro era quello di
individuare le modalità proprie di questa speciale consacrazione per stare
accanto ai giovani con un’attenzione particolare ai bisogni educativi
individuando risposte possibili. Le riflessioni e i confronti di questo
approfondimento sono stati poi pubblicati sulla rivista Incontri.
Per quanto riguarda
il Sinodo è utile fare un breve accenno al percorso a tappe che ha preceduto
l’esortazione del Papa: la prima tappa è stata quella dell’ascolto diretto dei
giovani attraverso questionari a cui hanno risposto gruppi e singoli; la
seconda tappa è stata l’edizione dello strumento di lavoro per i Vescovi e i
partecipanti al Sinodo che ha attinto, oltre che alle risposte date dai
giovani, ad altri documenti di approfondimento sulla realtà giovanile ; la
terza è stata l’Assemblea dei Vescovi e
l’ultima è stata il documento finale del Sinodo con i fondamenti che spesso il
Papa richiama nell’Esortazione e che possiamo riassumere con le seguenti
“etichette”: la disponibilità all’ascolto (della realtà giovanile), il discernimento
vocazionale (la risposta concreta alla chiamata alla libertà che il Vangelo
risveglia), l’accompagnamento (personale e comunitario), la sinodalità (ovvero
il camminare insieme, la vita fraterna). Si è quindi arrivati al pronunciamento
del Papa. Nell’esortazione apostolica riscontriamo infatti molti rimandi agli
approfondimenti precedenti. Per comprenderla meglio siamo quindi invitate anche
noi, se non l’abbiamo già fatto, a ripercorrere lo stesso cammino attraverso i
diversi documenti pubblicati: l’instrumentum laboris, il documento intermedio
al Sinodo, il documento finale e l’esortazione apostolica “Christus Vivit”.
Rispetto al lavoro
fatto tra istituti secolari abbiamo proceduto in questo modo individuando quattro
ambiti nei quali la nostra specifica vocazione ha qualche cosa da dire. Come
primo punto abbiamo approfondito la condizione giovanile riguardo le attese e i
bisogni dei giovani. Un secondo ambito di attenzione sono state le relazioni e
i rapporti interpersonali, familiari e sociali che caratterizzano i giovani. E’
stata analizzata la dimensione della fede e il rapporto con la Chiesa. Infine
abbiamo esplorato quali sono le scelte di vita che i giovani compiono. Questi
quattro argomenti trovano concordanza con le riflessioni del Sinodo stesso.
Questo per dire che non si può parlare dei giovani e “sopra” i giovani se non
si considerano le loro attese, i loro bisogni, la loro modalità relazionale, la
fede e le scelte che compiono.
Da subito si è
condivisa la difficoltà a dare voce ai giovani stessi rispetto a questi
argomenti perché i temi da approfondire erano molti ma il tempo da dedicare,
come accade sempre, era troppo poco. Si è deciso quindi di fare un
approfondimento bibliografico facendo emergere le linee generali di ciascun
argomento ma, aspetto più interessante, di individuare punti di forza e nodi
problematici da assumere per provare a dare una risposta caratterizzata dalla
consacrazione secolare.
L’incontro tra
Istituti è stata un’esperienza interessante. Vero è che la passione per i
giovani, al di là della nostra professionalità specifica, è una sensibilità che
abbiamo ereditato dai carismi dei nostri Istituti perché la cura dell’altro
passa attraverso la cura educativa.
Nella riflessione che segue ho mantenuto lo stesso
schema: nodi problematici e punti di forza dei quattro ambiti citati in
precedenza.
Il primo punto di questa nostra riflessione è quindi la
condizione giovanile che troviamo ben descritta nel primo capitolo
dell’Instrumentum Laboris per il Sinodo e che vi propongo integrata dagli
approfondimenti fatti con il gruppo di lavoro.
Questioni
aperte e nodi problematici
- Le opportunità
per i giovani variano in modo consistente da Paese a Paese e addirittura si
possono trovare differenze in uno stesso paese e tra zone urbane e rurali
- Di fronte alla
globalizzazione ne risente il senso di appartenenza ad un luogo con il rischio
che prevalga individualismo, consumismo, materialismo e apparenza.
- La mancanza di
lavoro strutturale e senza risposta.
- Il fenomeno dell’
“immigrazione economica” che porta i giovani ad uscire dal paese d’origine rendendo più povero il paese stesso: “un
Paese che stacca da sé la sua parte più vitale e propulsiva sopprime la
possibilità di progresso, di crescita, d’innovazione. Cancella la passione per
la ricerca, il desiderio di andare avanti, il sogno del futuro” (Ritanna Armeni, Messaggero S. Antonio n.3
- 2019).
- Si riscontra un
progressivo distacco dalla fede: non basta l’educazione religiosa ricevuta
nell’infanzia perché viene messa in discussione dal giovane e dalla società
stessa.
- I giovani
respirano la mentalità corrente antisistema ed antiistituzionale, compresa la
Chiesa cattolica intesa però come istituzione.
- In una società
pluralistica non è facile testimoniare di credere in Dio, si preferisce un
certo conformismo.
- Le scelte che
vengono fatte sono un’opzione tra le tante, che si possono cambiare senza
problemi, rendendo difficile una scelta di definitività.
- Gli adulti
parlano tanto dei giovani e li identificano con il futuro, ma non li lasciano
parlare, non li ascoltano in profondità. Il presente resta in mano ad adulti
che non lasciano spazio, che non fanno un passo indietro per far crescere i
giovani, dando loro anche delle responsabilità.
- “Oggi noi adulti
corriamo il rischio di fare un’analisi di disastri, di difetti della gioventù
del nostro tempo. Alcuni forse ci applaudiranno perché sembriamo esperti
nell’individuare aspetti negativi e pericoli. Ma quale sarebbe il risultato di
questo atteggiamento? Una distanza sempre maggiore, meno vicinanza, meno aiuto
reciproco”. (n. 66 Christus Vivit)
- La
sfida educativa: genitori, insegnanti, animatori… tutti sono chiamati a
riconoscere gli errori del passato, a studiare i cambiamenti in atto per non
rimanere ulteriormente indietro, ad ascoltare i giovani per poter entrare in un
dialogo aperto, rispettoso, non giudicante.
- Il
crescere di situazioni di disagio sociale, l’abbandono scolastico, l’emergere
di disturbi emotivi e del comportamento…, spesso non riconosciuti o riconosciuti
con difficoltà dalla famiglia, dicono un’emergenza che le istituzioni e la
società tutta rischiano di non considerare con sufficiente chiarezza e
profondità.
- La
difficoltà del discernimento, non solo vocazionale ma anche sulla realtà che
viviamo, che pure rimane fondamentale per rimanere “in ascolto dei sentimenti,
dei pensieri, delle intuizioni che nascono nel cuore e che orientano
all’azione”. (Come mi vedi? Ricerca sulla
percezione della vita consacrata femminile – Arcidiocesi di Milano Centro Diocesano
vocazioni – Centro ambrosiano 2017)
Aspetti positivi e punti di forza
- I
giovani si fidano degli adulti che si spendono sinceramente per gli altri, che
testimoniano responsabilità e coerenza. Persone che sanno capire e sollecitare
il loro bisogno di senso, le loro domande profonde, la loro richiesta di valori
positivi.
- “I
giovani non sono indifferenti verso chi si pone al loro fianco, chi non li
giudica ma li stimola, è attento alla loro condizione ma è capace anche di
richiamarli a grandi mete.” (La fede
vista dai giovani: un panorama in evoluzione – Franco Garelli – Aggiornamenti
sociali Marzo 2018)
- I
giovani sanno ascoltare chi sa narrare la propria vita senza nascondere
amarezze, delusioni, contraddizioni.
- I
giovani sanno cogliere il bello, sanno sognare, sanno stupirsi… hanno bisogno
di sentirsi dire che possono farlo, che non sono visionari o utopistici.
- I
giovani sono capaci di sacrificio per raggiungere un traguardo, per costruire
il loro avvenire, bisogna lasciare loro lo spazio per mettersi in gioco.
- I
giovani desiderano essere ascoltati e riconoscere che il loro contributo
risulta interessante ed utile in ambito sociale ed ecclesiale. (n.7 Documento Finale)
Un altro ambito che
necessita di molta attenzione è quello delle relazioni e dei rapporti
interpersonali, familiari e sociali che caratterizzano i giovani
Oggi non esiste più
una condizione giovanile ma esistono giovani, ognuno diverso dall’altro e
questo viene messo in evidenza da papa Francesco con molta chiarezza nell’Esortazione.
I loro percorsi di crescita non sono più comuni ma individualizzati a seconda
delle opportunità e risorse che hanno a disposizione e da quello che riescono a
mettere in gioco. Il sociologo Mario Pollo definisce i giovani di oggi come i
“nativi precari” perché nati in un tempo frammentato che non permette loro di
prendere impegni a lungo termine e di stabilire relazioni durature, infatti una
delle difficoltà che le nuove generazioni devono affrontare è quella di
stabilire relazioni significative con gli altri. Ne deriva prima di tutto una
pluralità di valori ai quali fare riferimento senza però riuscire a fare una
gerarchia e definire delle priorità. A questo consegue la difficoltà a definire
un progetto di vita per il quale fare delle scelte precise e definitive: “La
loro vita si costruisce per occasioni e per frammenti” così scrive ancora il
sociologo Mario Pollo.
Questioni aperte e nodi problematici
- La difficoltà
nelle relazioni è generata da vari
fattori, in particolare dalla inautenticità dei rapporti che si creano
virtualmente ed hanno la caratteristica di essere precari e mascherati. Proprio
per questo il giovane può presentarsi attraverso diverse identità a seconda del
contesto in cui si trova.
- C’è una fragilità
nella gestione della relazione centrata sugli aspetti affettivi piuttosto che
etici e di impegno nella relazione
- Sono poche le
occasioni di confronto di tipo intergenerazionale al di fuori della famiglia
- La figura del
padre è messa in secondo piano e non ha
più una funzione normativa che invece è
stata assunta dalla figura materna
Aspetti positivi e punti di forza
- La
mamma è la figura di riferimento principale e con lei i figli dialogano e
chiedono consigli
- La
famiglia è un punto di riferimento ancora molto importante
- Le
relazioni amicali e amorose occupano un ampio spazio
- Sognano
il matrimonio, la famiglia, un lavoro stabile
- Chiedono
dei modelli affidabili
Un altro
approfondimento irrinunciabile riguarda la dimensione della fede e il rapporto che
i giovani hanno con la Chiesa.
Il Documento Finale
afferma che: “L’esperienza religiosa dei giovani è fortemente influenzata dal
contesto sociale e culturale in cui vivono. In alcuni Paesi la fede cristiana è un’esperienza comunitaria forte e
viva, che i giovani condividono con gioia….in altri il peso di scelte del
passato hanno minato la credibilità ecclesiale. Non è possibile parlare della
religiosità dei giovani senza tenere presenti tutte queste differenze (il
contesto)” (n.48 Documento Finale)
Nell’ambito Italiano sono state svolte due importanti
ricerche dall’Istituto Toniolo: la prima ricerca, chiamata Rapporto Giovani, è
stata avviata nel 2012 e rappresenta la più approfondita e completa indagine
quantitativa sui giovani. Il questionario somministrato con questa ricerca
riguarda aspetti diversi della vita, tra cui il rapporto con il lavoro, la
famiglia, le istituzioni, il volontariato, la fede. Nel 2014-2015 è stato
realizzato un approfondimento particolare sul tema della fede: tale
approfondimento, realizzato con le tecniche qualitative della ricerca sociale,
ha portato alla pubblicazione della ricerca “Dio a modo mio”.
Questioni aperte e nodi problematici
- “Il
Sinodo è consapevole che un numero consistente di giovani, per le ragioni più
diverse non chiedono nulla alla Chiesa perché non la ritengono significativa
per la loro esistenza…” (n.53 Documento
Finale)
- Dalla ricerca dell’Istituto Toniolo
emerge che solo il 12% dei giovani intervistati si è dichiarato praticante
impegnato. Dal 2006 ad oggi è aumentata la percentuale di quelli che si
dichiarano non credenti. Tra chi crede, il 35% va a messa solo in occasioni
particolari, il 24% non va mai a messa. Da questi dati si può trarre la
conclusione che la fede dei giovani è soggettiva: credono in Dio ma non nella
Chiesa.
- I giovani sono molto critici nei
confronti della Chiesa: non ne comprendono le regole, che ritengono non vadano
imposte. Criticano la ricchezza della Chiesa e sono molto sensibili nei
confronti dei recenti scandali riguardanti la Chiesa. Non
conoscono più l’alternativa Cristo sì, Chiesa no, che era di moda alcuni decenni fa. Non
sono più in fase di opposizione, ma di distacco dalla Chiesa.
- La preghiera comunitaria, ecclesiale
non è sentita. Viene ritenuta valida solo la preghiera personale. Sono giovani che
pregano, ma lo fanno a modo loro.
- Pochi giovani ricordano in modo
positivo l’esperienza del catechismo dell’iniziazione cristiana. Sono giovani
che non conoscono bene Gesù.
- Spesso, i
giovani hanno difficoltà nel trovare uno spazio nella Chiesa in cui possano
partecipare attivamente ed avere delle responsabilità. I giovani, dalle loro
esperienze, percepiscono una Chiesa che li considera troppo piccoli e inesperti
per prendere decisioni, e che si aspetta solo errori da loro.
Aspetti positivi e punti di forza
- La quasi totalità dei giovani manifesta un
atteggiamento positivo nei confronti dell’esperienza di fede. Anche chi
dichiara di non credere afferma che credere dà speranza, consolazione, aiuto,
amore.
- La preghiera è ritenuta qualcosa di
intimo, di privato. C’è un desiderio di spiritualità, di svolgere un cammino
personale. I giovani intervistati riconoscono che credere da senso alla vita,
che la fede da la forza di superare le paure che si hanno.
- Nella Chiesa i giovani cercano
relazioni calde, cercano una comunità che li sostenga, cercano relazioni che
non li facciano sentire soli.
- “I
giovani chiedono che la Chiesa brilli per autenticità, esemplarità, competenza,
corresponsabilità e solidità culturale. A volte questa richiesta suona come una
critica ma spesso assume la forma positiva di un impegno personale per una
comunità fraterna, accogliente, gioiosa e impegnata profeticamente a lottare
contro l’ingiustizia sociale…” (n.57
Documento Finale)
- Papa Francesco piace molto ai giovani: di lui
apprezzano l’amore per i poveri e la ricerca della pace. Lo sentono vicino
perché si è spogliato della parte “istituzionale” della Chiesa.
Infine ci guida una domanda: quali sono le scelte di vita che i giovani compiono?
I giovani non vivono un’epoca di proteste e di
contestazioni, vivono piuttosto un’epoca delle “passioni tristi”, che li
paralizzano nelle scelte quotidiane. Soprattutto in un contesto socio-culturale
in cui tutto appare accessibile si corre il rischio di non riuscire a scegliere
nulla proprio per la tentazione di non perdere, scegliendo, qualcosa.
Questioni aperte e nodi problematici
- Mancanza di sicurezza, di continuità in
un mondo dove tutto appare fluido e in movimento.
- Difficilmente le scelte definitive
vengono compiute prima dei 25 anni
- Poche certezze a livello lavorativo, in
campo economico e anche nelle relazioni rendono difficile il compiere delle
scelte.
- Il
diffondersi di alcuni stati d'animo di crisi (insicurezza, ansia,
inadeguatezza), dovuti spesso al cronicizzarsi della precarietà può far
smarrire alle giovani generazioni la capacità di rischiare in proprio,
inducendoli ad adagiarsi nello spazio rassicurante e avvolgente della famiglia.
- Salari
bassi comportano un rinvio delle scelte
- Le scelte definitive possono essere
viste come vincoli più che come opportunità
Aspetti positivi e punti di forza
- Il Documento
Finale riconosce che la felicità è favorita dal sentirsi attivi, dal fare, dal
vedere il proprio tempo utilmente impiegato, dall’aver compiuto delle scelte.
È legata non tanto al reddito e al benessere economico, ma soprattutto
alla produzione di senso e al riconoscimento sociale che si ottengono
attraverso il proprio agire.
- “L’impegno
sociale è un tratto specifico dei giovani d’oggi…. L’impegno sociale e il
contatto diretto con i poveri restano un’occasione fondamentale di scoperta o
approfondimento della fede e di discernimento della propria vocazione”. (n.46 Documento Finale)
- C’è il
desiderio di compiere scelte importanti e di lasciare un’impronta nel mondo
Carlo Maria Martini così scrisse: “Alla
gioventù vorrei dire questo: rischiate qualcosa! Rischiate la vostra vita!
Perché, per paura delle decisioni, ci si può lasciare sfuggire la vita. Certo,
chi ha il coraggio rischia di sbagliare. Ma chi ha deciso qualcosa in modo
troppo avventato o incauto sarà aiutato da Dio a correggersi. E ai coraggiosi,
poi, sono concessi amici sinceri. Solo gli audaci, infatti, cambiano il mondo
rendendolo migliore”.
Pongo infine, alla vostra
riflessione, la stessa domanda che ci siamo fatte tra Istituti: Cosa possiamo
offrire ai giovani, come Istituti Secolari, per accompagnarli nell’affrontare i
nodi problematici che abbiamo descritto?
- La
specificità degli I.S. è l’attenzione e la simpatia per il mondo con il cuore
immerso in Dio. Solo così saremo capaci di profezia, di relazioni personali
attente, di ascolto autentico, rimanendo dentro anche alle contrarietà e alle
tensioni, valorizzando la diversità e la pluralità.
- Conoscere
ed usare in modo corretto e costruttivo i nuovi mezzi di comunicazione, senza
perdere occasione di riflessione con i giovani sull’utilità ma anche sulla
pericolosità di tale nuova tecnologia.
- Saper
scrutare la realtà e in particolare la realtà giovanile in profondità, con
orizzonti ampi, senza paura di percorrere anche strade nuove. “Le nuove
generazioni hanno bisogno di vedere la bellezza insita nel lavoro, di
assaporare la passione che una persona può mettervi, di essere accompagnate
passo dopo passo, di ricevere fiducia, di capire il senso vero della
responsabilità, di cogliere la necessità di crescere in competenza e umanità”. (Atti del Convegno di Roma del 28 e 29
ottobre 2017 – Incontro 6/2017)
- Saper
dare ragione della fiducia che sentiamo nei loro confronti ma anche essere
modello che guarda con fiducia il nostro tempo attuale, le persone che
frequentiamo, i giovani che incontriamo, fratelli e sorelle in Dio che ne siano
consapevoli e meno.
- Con
le nostre competenze e professionalità siamo in grado di curare la formazione
di “donne e uomini capaci di leggere e affrontare questo cambiamento d’epoca
con riflessione e discernimento, cioè senza pregiudizi ideologici, inseriti
nella complessità di alcune situazioni senza paure o fughe. Una formazione che
aiuti a vivere i problemi come sfide e non come ostacoli perché il Signore è
attivo e all’opera nel mondo”. (Atti del
Convegno di Roma del 28 e 29 ottobre 2017 – Incontro 6/2017)
- Dai vari approfondimenti risulta un mondo giovanile che nasconde tesori
di interiorità e un’inedita attesa di Dio. Ma, per educare questo mondo, dobbiamo
passare da un modello che intende proporre una serie di impegni a uno impostato
sul dialogo, che è scambio, personalizzazione dell’annuncio e accompagnamento.
- Possiamo essere capaci di promuovere
nei giovani la crescita, nei confronti di loro stessi, degli altri, della vita
sociale e civile perché è l’anelito che ciascuna di noi ha vissuto e continua a
vivere personalmente.
- Ci caratterizza la stessa capacità
di Papa Francesco, che ritroviamo nell’Esortazione C.V. di comunicare con chiarezza il Vangelo, di
motivare e incoraggiare, di dare speranza.
- Siamo capaci di accompagnare per rimettere
al centro l’attenzione all’altro, la ricerca di una integrazione tra il bene
personale e il bene comune, l’importanza di pensare il futuro non al singolare,
ma al plurale.
- Siamo in grado di proporre modelli
positivi di relazione che durano nel tempo e oltre il tempo
- Siamo esercitate
nella disponibilità all’ascolto (della realtà giovanile), al discernimento
vocazionale, all’accompagnamento (personale e comunitario), alla sinodalità (ovvero
il camminare insieme, la vita fraterna).
La
riflessione non si ferma qui e il confronto deve continuare nell’ambito del
vostro Istituto assumendo quanto Papa
Francesco ha scritto per i giovani e per tutti i cristiani, in conclusione all’Esortazione
:
“E
per concludere... un desiderio: Cari giovani, sarò felice nel vedervi correre più
velocemente di chi è lento e timoroso. Correte «attratti da quel Volto tanto
amato, che adoriamo nella santa Eucaristia e riconosciamo nella carne del
fratello sofferente. Lo Spirito Santo vi spinga in questa corsa in avanti. La
Chiesa ha bisogno del vostro slancio, delle vostre intuizioni, della vostra
fede. Ne abbiamo bisogno! E quando arriverete dove noi non siamo ancora giunti,
abbiate la pazienza di aspettarci».
PREGHIAMO INSIEME
Egli è la sorgente della migliore gioventù. Perché chi
confida nel Signore «è come un albero piantato lungo un corso d’acqua, verso la
corrente stende le radici; non teme quando viene il caldo, le sue foglie
rimangono verdi» (Ger 17,8).
Mentre «i giovani faticano e si stancano» (Is 40,30), coloro che ripongono la loro fiducia nel Signore
«riacquistano forza, mettono ali come aquile, corrono senza affannarsi,
camminano senza stancarsi» (Is
40,31).
BIBLIOGRAFIA:
Esortazione
Apostolica Christus Vivit
Piccoli atei crescono. Davvero una
generazione senza Dio? – Il Mulino, Bologna 2016
La prima generazione incredula. Il
difficile rapporto tra i giovani e la fede – Armando Matteo – Nuova Edizione Speciale Rubettino
Editore, Soveria Mannelli 2017
Fuori dal recinto. Giovani, fede,
chiesa: uno sguardo diverso – Alessandro Castegnaro – Ancora 2013
Messaggio
di Papa Francesco 27 gennaio 2017
Sinodo 2018
Papa Francesco e i giovani: dieci frasi per una nuova “primavera” nella Chiesa
La fede vista dai giovani: un
panorama in evoluzione – Franco Garelli – Aggiornamenti sociali Marzo 2018
Come mi vedi? Ricerca sulla
percezione della vita consacrata femminile – Arcidiocesi di Milano Centro Diocesano vocazioni –
Centro ambrosiano 2017
Atti del
Convegno di Roma del 28 e 29 ottobre 2017 – Incontro 6/2017
Istat –
Rapporto annuale 2017. La situazione del Paese
La condizione giovanile in Italia – Rapporto giovani 2017 – Istituto
Toniolo
https://agensir.it/chiesa/2017/05/16/asemblea-cei-e-sinodo-mario-pollo-sociologo-i-giovani-nativi-precari-ci-insegnano-una-nuova-progettualita/
Chiara Giaccardi Relazioni comunicative e affettive dei
giovani nello scenario digitale - Università Cattolica del Sacro Cuore –
Milano 2010
Dio a modo mio. Giovani e fede in Italia, a cura di R. Bichi - P.
Bignardi, Milano, Vita e Pensiero, 2016
Incontro ecumenico e
interreligioso con i giovani in Bulgaria e Macedonia del Nord 7/5/2019
vivere comunione e missione con cuore accogliente e misericordioso. prospettiva biblica
Il titolo della relazione offre una chiave
di lettura che viene dalle Scritture. La Bibbia è una biblioteca, che apre per
le sue lettrici una pluralità di prospettive, numerose vie d'accesso. “C'è un
libro per ogni cosa”, potremmo dire, parafrasando il Qohelet! E tuttavia, tutte
le narrazioni bibliche, per quanto molto differenti tra loro, sorgono da una
medesima grammatica, i cui contenuti essenziali possiamo ritrovare proprio in
questo titolo. Mi limiterò, dunque, a dare peso a queste parole, a evidenziarne
la posta in gioco, così come viene messa a fuoco nelle Scritture.
1. Innanzitutto, “vivere”. È proprio
il verbo giusto, dal punto di vista biblico. Dal nostro punto di vista,
probabilmente, gli avremmo preferito il verbo “fare” o la sua variante più
poetica: “creare”. Per noi la comunione e la missione appartengono all'ordine
delle azioni. Soprattutto oggi, quando le chiese tutte, gli ordini religiosi,
le varie associazioni ecclesiali sentono il fiato corto di presenze ridotte ai
minimi termini, ecco che diviene evidente l'urgenza di rimpolpare le fila, pena
l'esaurimento dell'esperienza. Certo, non siamo poi così spudorate da
affrontare questa sfida in termini di numeri, con una mentalità da marketing; ricorriamo a parole più religiose,
come comunione e missione. Ma al fondo della questione, magari in modo non del
tutto consapevole, pensiamo che si tratti di agire, di predisporre nuove
strategie, aggiornando il vocabolario e rendendo più appetibile la proposta.
Intendiamoci
bene: non è che la domanda sul “fare” sia sbagliata. Ma non funziona come punto
di partenza. La Bibbia ci suggerisce di essere più radicali, ovvero di andare
alla radice. Di risalire a monte di quella valle in cui si muovono le nostre
legittime preoccupazioni. E alla radice di tutto ci sta il “vivere”,
accompagnato dalla domanda antropologica: “cosa significa vivere?”. La Bibbia,
più che un discorso umano su Dio – un libro di teologia – presenta il discorso
divino sull'umanità – un libro di antropologia. Forse, le chiese, hanno letto
le Scritture con l'intenzione di estrarre la retta dottrina, il “Credo”
costitutivo dell'esperienza ebraico-cristiana e hanno lasciato in ombra il
fatto che la fede è il lievito per la pasta della vita. O, per dirla con la
conclusione del Vangelo secondo Giovanni: che la Parola testimoniata nelle
Scritture intende sì suscitare la fede; ma quest'ultima è in funzione del
vivere. Il Quarto evangelista dichiara che i segni da lui attestati “sono stati scritti, affinché crediate che Gesù è il Cristo,
il Figlio di Dio, e, affinché, credendo, abbiate vita nel suo nome” (Gv
20,31). Dunque, si ascolta la Parola per credere; ma si crede per vivere. Gesù
è venuto affinché tutte e tutti “abbiano la vita e
l'abbiano in abbondanza” (Gv 10,10). Alla scuola dell'evangelista Giovanni,
possiamo apprendere la passione per la vita. E riscoprire la prospettiva del
“vivere” significa liberare la fede dalle secche moralistiche e dottrinarie per
mettere in evidenza il suo carattere esistenziale. Dalla Genesi all'Apocalisse,
la Bibbia vuole essere un canto della vita. Un canto intelligente, realistico,
ben consapevole che la vita può essere tradita. È quanto viene espresso col
termine “peccato”. Per le nostre orecchie, questa parola suona moralistica,
come trasgressione della Legge. Ma trasgredire una norma si dice “reato”, non
“peccato”! Il termine ebraico, alla lettera, significa “fallire il bersaglio”.
Si tratta, dunque, di una prospettiva esistenziale: tu desideri essere felice
ma operi delle scelte che ti allontanano dalla meta, ti portano a fallire il
bersaglio. Il senso del termine ebraico che traduciamo con “peccato” lo
possiamo cogliere nell'uso esclamativo che ne facciamo: “peccato che non hai
raggiunto quanto desideravi! Peccato che non sei felice!”.
Alla radice di tutto c'è il vivere. Ma noi,
esseri umani, non nasciamo con le istruzioni per l'uso, non sappiamo in partenza
cosa significhi vivere. Respiriamo, ci muoviamo, cresciamo: ma il senso del
nostro vivere non emerge in automatico. Di qui la domanda: “cosa significa
vivere?”. Domanda sapienziale per eccellenza, che va continuamente posta,
perché mai esaurita. Domanda da riproporre, oggi, in cui abbiamo a disposizione
tutte le risposte: ce le fornisce il signor Google! Oggi, il problema non sono
le risposte ma le domande. Quali domande ci facciamo? Semplici quiz, che
prevedono una risposta esatta (prospettiva del cosiddetto “problem solving”)? O
siamo capaci di domande che durano un'intera esistenza, domande sapienziali sul
“come vivere” più che sul “cosa fare”? Che bello se una chiesa, un ordine
religioso fosse in grado di testimoniare questa radice dell'esperienza credente.
Così che chi ci guarda dall'esterno non pensi immediatamente a dei venditori di
un prodotto religioso, che cercano di convincere le persone ad entrare nel loro
negozio. Se ci riducessimo a questo, avremmo già in partenza tradito l'evangelo
della grazia, ovvero dell'amore gratuito di Dio! Com'è differente stare nella
compagnia degli esseri umani come persone che si chiedono “cosa significhi
vivere” e che testimonino che la fede ha qualcosa da dire proprio a questo
riguardo, che non è una “cosa di chiesa” ma ha a che veder con l'arte di
vivere. Di vivere bene, non come schiavi, ma in una terra libera; non come
succubi della mentalità del faraone ma provando a battere la strada alternativa
suggerita dalle “dieci parole” di libertà. Il Dio d'Israele e di Gesù, che
raccoglie il nostro grido e desidera liberarci dalle catene, continua a dirci:
“scegli la vita” (Dt 30). Perché non è vero che la vita procede in automatico –
basta che respiri e che il cuore continui a battere. Lo vediamo bene oggi, in
una società tendenzialmente depressiva, in mezzo ad un'umanità spaventata,
stanca, arrabbiata. Noi per prime e poi nella veste delle testimoni dobbiamo
tenere viva la domanda sul “vivere”.
2. Per la Bibbia, la vita ha un centro,
ovvero il “cuore”. Sgombriamo il campo dai fraintendimenti: per le
Scritture “cuore” non ha quell'accezione romantica che ha per noi. Il cuore non
è la sede dei sentimenti. O meglio, non è solo questo. Nel mondo delle
Scritture, il cuore è la cabina di regia di ogni espressione umana. Col cuore,
certo, si sente, ma anche si pensa, si decide, si agisce. Se noi diciamo alle
nostre ragazze: “usa la testa”, la Bibbia direbbe: “usa il cuore”. La qualità
della vita la si gioca nel cuore. Un cuore che può essere “ingannevole più di ogni altra cosa, e insanabilmente
maligno” (Ger 17,9; cfr. Gen 6,5; 8,21); un cuore che può ripiegarsi su
di sé (così Lutero definiva la condizione di peccato: “cor incurvatum”) e
divenire indurito (Es 7,13), di pietra (Ez 11,19; 36,26). Ma che può anche
essere un cuore di carne, capace di amare Dio con tutto se stesso (Dt 6). O con
le parole del nostro titolo: il cuore può essere misericordioso ed accogliente
ma anche spietato ed egoista. Le parole dello Shemà Israel, che
costituiscono la preghiera quotidiana delle sorelle e dei fratelli ebrei, si
presenta come un'intensa riflessione sul cuore. È dal cuore che sorge la
passione dell'amore e la scelta di dare forma alla fede seguendo i comandi del
Signore. Alla lettera, viene detto che la parola che Dio ha rivolto al suo
popolo sta “sul tuo cuore”. Non “dentro”, come un dato già acquisito e fatto
proprio. Piuttosto, come una realtà che sta sull'orlo del cuore; dipende da noi
farla cadere dentro o lasciarla scivolare fuori. Perché sia la Parola ad
educare il cuore e dare forma all'esistenza, occorre domandare – come fa
Salomone – un “cuore che sa ascoltare” (1 Re 3,9). E' il cuore, più che
l'orecchio, l'organo dell'ascolto. L'arte della meditazione prova a prendere
sul serio questa indicazione che non esaurisce il percorso della Parola nel
suono che colpisce il timpano dell'orecchio e nel significato colto dal
cervello. Affinché la Parola dia forma all'esistenza è necessario che si
radichi nel cuore, orientando l'intelligenza, certo, ma anche il sentire, il
gustare, il discernere, il decidere, l'agire.
Nel
Nuovo Testamento, forse è soprattutto l'evangelista Matteo ad indicarci
un'interessante prospettiva nel custodire il cuore. Matteo, infatti, presenta
Gesù certo come il Signore – “l'Emmanuele, il Dio con noi” - e come il Salvatore;
ma per lui, Gesù è soprattutto il Maestro. Il Vangelo secondo Matteo è
costruito attorno a cinque grandi discorsi che Gesù rivolge ai suoi discepoli
affinché divengano scribi sapienti, in grado di estrarre dal loro tesoro cose
nuove e cose vecchie (Mt 13,52). Tutti questi discorsi, a partire dal primo,
quello pronunciato sul monte (Mt 5-7), mirano ad illustrare la sapienza del
Regno e a farla radicare nel cuore. Così che il cuore divenga misericordioso e
accogliente persino nei confronti dei nemici. Dietro certe indicazioni che a
noi suonano paradossali – porgere l'altra guancia, dare anche la tunica... - vi
è in gioco una differente sapienza delle relazioni, sottratte al limite delle
re-azioni simmetriche (se l'altro mi picchia, anch'io faccio altrettanto) e
capaci di spiazzare l'interlocutore, di promuovere gesti creativi. In un
momento storico in cui prevalgono le reazioni impulsive, di pancia, con tutto
il loro carico di rancore, di vendetta e di odio, oltre a deplorare questa
pericolosa deriva societaria, occorre lavorare a monte per formare cuori che
sono in grado di promuovere un differente vedere, sentire, valutare, agire.
La misericordia e l'accoglienza non sono
sentimenti spontanei. Tutt'altro! È necessario che il cuore faccia esperienza
della grazia, che perdona e accoglie. Che il cuore senta le parole di Gesù: “misericordia
voglio, non sacrificio”; e “l'avete fatto a me”.
Le chiese, così attente alla formazione
catechistica e all'educazione sacramentaria, spesso dimenticano che alla base di
ogni proposta di fede vi è l'educazione del cuore. Oggi, in un momento in cui
abbiamo smarrito il senso dell'essere umani, c'è un lavoro pedagogico di tipo
sapienziale, un'educazione dei cuori, che domanda di divenire prioritario.
3. Solo a questo punto possiamo affrontare i
due sostantivi del titolo. Innanzitutto, la comunione. Per niente
scontata nel nostro contesto storico, la comunione è il frutto maturo della
sapienza relazionale. Il discorso della comunione si avvale della grammatica
dei legami, di uno sguardo sulla vita che vada oltre l'idolo del nostro “io”
recuperando la verità del “noi”. Di nuovo, è in gioco il “vivere”, la domanda
su cosa significhi vivere. Si tratta di cogliere tutta la portata di quella
parola originaria, detta da Dio: “non è bene che l'essere umano sia solo” (Gen
2,18). In una creazione “buona”, la prima cosa “non buona” è il pensarsi senza
l'altro, come se ci facessimo da soli e non fossimo “figlie” e “figli”. Può
essere utile leggere l'opera in due volumi di Luca – il suo Vangelo e il
libro degli Atti degli apostoli – come una riflessione sul vivere la comunione.
La comunione offerta da Dio ad un'umanità che la fugge e si ritrova perduta –
come i due figli della parabole (Lc 15); una comunione vissuta nella comunità
ecclesiale, come nei sommari di Atti (2, 42ss; 4, 32ss), dove vengono
esplicitati gli ingredienti di base della comunione. Alla scuola di Luca
impariamo che la comunione non è mai dato di partenza, ma sorpresa delle
“seconde volte”. In principio, c'è il rifiuto, come quello patito da Gesù a
Nazareth (Lc 4) o dalla prima chiesa di Gerusalemme (At 5: Anania e Saffira).
Solo la misericordia e l'accoglienza reciproca possono riaprire i sentieri
interrotti della comunione. Impariamo che la logica della comunione non ha niente
a che spartire con il calore settario, avendo un respiro universale, che giunge
fino ai confini (non solo fisici, ma anche esistenziali) della terra (At 1,8:
programma dato dal Risorto). E che l'universalità delle relazioni si misura col
criterio del povero, con la sfida di essere una realtà portatrice di una buona
notizia per i più poveri (Lc 4,18). Ma questo respiro ampio della comunione
prende forma “a partire da sè”: solo una chiesa comunionale può annunciare
l'evangelo della fraternità. La comunione, prima di essere un tema, è uno
stile, un modo di vivere la fede camminando insieme (sinodo!), superando le
barriere che dividono le donne e gli uomini, gli ebrei e i pagani, gli schiavi
e i liberi. Una chiesa dal volto fraterno, portatrice della sapienza dei
legami, capace di collaborare con tutte e tutti, che antepone il bene comune
alla propria affermazione. Scommettere sulla comunione significa convertirsi da
un modo d'essere autoreferenziale, anche quando si è tentati di giustificarlo
in nome della fedeltà a Cristo. Significa pensarsi come piccoli laboratori di
relazioni significative, creative, dove nulla è scontato e tutto va ripensato.
4. Infine, la missione. Che non è l'appendice alla comunione, una
sua dilatazione che coinvolge altre persone. L'urgenza della missione non può
essere dettata da esigenze di sopravvivenza o di espansione. Missione non è
proselitismo o marketing al fine di rimpolpare le fila sempre più esigue. È un
sentirsi “mandate”, senza sapere bene dove andare, come muoversi, cosa fare.
Almeno, per l'evangelista Marco – come per Abramo - si tratta di questo.
Non della marcia trionfale di chi intende conquistare il mondo, forte della
verità ricevuta e della fede salda con cui la si è accolta. Con linguaggio
paradossale, Marco racconta di discepoli e discepole che non capiscono,
fraintendono, sperimentano la loro inadeguatezza; e in questa postura, che
sembrerebbe congelare ogni desiderio missionario, provano, ogni volta daccapo,
a ricominciare a stare con Gesù e ad andare ad annunciare la parola e la forza
del Regno (Mc 3,13-15). Normalmente, non si attingono da Marco le indicazioni
per la missione. Personalmente, ritengo che oggi questo racconto evangelico sia
illuminante per muoverci in un contesto ingarbugliato, in cui ci sentiamo
spiazzate e inadeguate. Oggi, la missione deve saper coniugare i linguaggi
opposti della passione e della fragilità. Oggi, la fede può essere testimoniata
da chi condivide l'incertezza e sperimenta sulla propria pelle il fallimento.
Come le discepole descritte da Marco, che di fronte all'annuncio della
resurrezione “fuggono, senza dire niente a nessuno, perché avevano paura” (Mc
16,8). Questo scandaloso finale di racconto sembra mettere sotto scacco il
senso stesso dell'evangelo. Dove sta la buona notizia per un'umanità in fuga da
se stessa, spaventata e senza parole? Per Marco, l'evangelo si nasconde nel
versetto precedente (16,7), dove risuona la parola del messaggero celeste: “vi
precede in Galilea; là lo vedrete”. I credenti non sono migliori degli altri;
non hanno una marcia in più. Fragili e fallibili, possono contare unicamente
nella speranza che il Risorto continua a precederli e li rimanda in Galilea,
laddove tutto aveva preso inizio. Un po' come il gioco dell'oca, si tratta di
tornare alla partenza, di ricominciare dall'inizio. Per Marco solo i ripetenti
possono essere missionari credibili. Che condividono realmente (non per finta,
per strategia) la fragilità della condizione umana, sorretti dalla speranza che
ci è sempre data una “seconda volta”. Quando si fa i conti con la propria
inadeguatezza, si smette di essere giudicanti e si coltivano relazioni
empatiche con tutti, anche con i falliti della vita, con i dannati della terra.
Imparare alla scuola di Marco l'arte della missione significa umanizzare la
fede, riscoprire la comune condizione umana, scommettere sulla possibilità di
ricominciare. Significa essere missionari di umanità, per poter essere
testimoni credibili di quel Dio che ci manda ad annunciare che il suo Regno,
nonostante tutto, è vicino.
Alla scuola dei quattro Vangeli, siamo
chiamate a ripensare le grandi parole della fede, perché possano essere
significative per noi e per le donne e gli uomini del nostro tempo.
Forse, in mezzo alle molte fatiche che ci
angustiano, questo nostro tempo ci mette tra le mani il “dono dell'incertezza”,
che ci obbliga a non procedere in automatico (“si è sempre fatto così”!) e a
riaprire il cantiere evangelico dell'ascolto della Parola per discernere quanto
lo Spirito intende suggerire alle chiese.
A questa Parola siamo affidate (At 20,32):
che il nostro cuore la mediti giorno e notte (Sal. 1)!
Lidia Maggi
celebrazione eucaristica di apertura
Venerdì 19 luglio. Alle ore 18,30, l'Arcivescovo di Bologna, don Matteo Zuppi, ha presieduto la celebrazione eucaristica di apertura della IX Assemblea Generale Ordinaria. (VEDI FOTOGALLERY)